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Caro DirettoreGuglionesi
Pubblicato in data 12/10/2021 ● Click 1068

Vita guglionesana: il tempo passato colora di nostalgia i ricordi


Arcangelo Pretore © FUORI PORTA WEB

Tra i tanti che mi vengono in mente ,almeno per un motivo , ritorno al passato , perché i miei figli e qualche volenteroso lettore , fidando sulla mia memoria , sappiano quanto del sociale esteso del tempo andato ho qui cercato di ricostruire ; un rinvio, spero socializzabile, a quando , a dove e, come ho vissuto - Sono nato in casa , non in ospedale ; mia madre Ada , durante il parto è stata assistita dalla levatrice : signora Ferioli ( senior) che, professionale ha “alleviato” la nascita di tanti guglionesani , che oggi forse hanno dimenticato . Mi è stato raccontato che la nascita è stata allietata dall’augurante assaggio di grano cotto che la nostra vicina, signora Buri ,aveva messo a cuocere in umido a fuoco lento nel paiuolo . Generosa , offriva in una ciotola una manciata di grano ai parenti , ai curiosi del vicinato che facevano visita alla neomamma . Come tutti i neonati , senza unghie , senza denti, bisognoso di essere nutrito , da subito ebbi necessità delle amorevoli cure materne . So , perché lo ricordo che , verosimilmente , così accadde, perché il trattamento della prima” vestizione” ( tutti nasciamo nudi ed uguali , le camicie, dopo, faranno le differenze sociali ) a me riservato fu simile a quello che subirono : le mie sorelle, mio fratello che , di lì a pochi anni , seguirono alla mia nascita .Mia madre mi fasciava sul cassone scuro che aveva il coperchio ribaltabile verso il muro ; al suo interno venivano stipate le vettovaglie di media e lunga conservazione e, quindi di necessità, fungeva anche da fasciatoio.. In pratica , mia madre mi “mummificava “ con lunghe avvolgenti bende di stoffa grezza che, completata l’operazione, rendevano il mio smilzo neonato corpicino un piccolo fardello e, bloccata in tal modo ogni sciolta motilità , il pupo , spesso dispettosamente frignante , si poteva appoggiare in sicurezza nella culla. Ancora oggi non mi è dato di capire a quali correzioni ortopediche o a quali predisponenti accorgimenti pediatrici tale stretto avvolgimento mirasse . E’ certo, non si usa più. La casa in cui nacqui era ubicata a fronte di : Strada Galterio , nello slargo a cui si accedeva da Vico San Francesco : uno svincolo poco più avanti lo spiazzo antistante la chiesa di S. Antonio . L’abitazione, sul retro , aveva accesso anche da via della Pace, una traversa parallela di un isolato avanti, sempre proseguendo su via Galterio . l’indirizzario delle strade oltre a definire la progressione pari e dispari del numero civico che ubica l’abitazione, talvolta , può diventare un orientante indicatore dei personali percorsi di vita ( così in parte è stato per me ) . Ci si affeziona ai luoghi anche per il fatto che alle volte la titolazione della strada sintetizza concetti che, sia pur distrattamente , ad ogni imbocco della stessa l’iscrizione desta la nostra attenzione e, pertanto viene reiterata nella nostra mente e, in modo fruttuoso l’informazione giocoforza viene consolidata . Concetti che se coerenti con la nostra sensibilità personale possono anche diventare una condivisa categoria morale . E, sin da bambino, ricordo, uscendo da casa , nell’ immettermi in via Galterio, prima di prendere per lo slargo di piazza S. Antonio, leggendo con la coda dell’occhio “ Vico S .Francesco” venivo rinfrancato da una confortante spiritualità antica che perdurante da secoli aveva significativamente pervaso il mondo cristiano. Da adulto, il semplicismo fraseologico del Cantico francescano di allora a cui il Santo con immediatezza rimandava si è complicato con la scoperta del conflitto che, ancora in vita Francesco , si era innescato tra i suoi confratelli : i frati spiritualisti e i frati conventuali . Un’accesa diatriba che ha fortemente influenzata la scelta di Celestino V di rinunciare nel 1250 al Soglio pontificio ; tutto ricostruito nel testo letterario : “L’avventura di un povero cristiano “ di Ignazio Silone . La mia modesta abitazione , abitabile solo al primo piano poiché al tempo, come tante altre del borgo vecchio aveva la stalla al pian terreno , comunicante con una utile pagliaia che ne ampliava lo spazio . Nel vano della stalla , all’interno , facendo angolo con il muro perimetrale , nel compluvio canalizzato di più tetti c’era, ( c’è ancora) una cisterna profonda a volta in mattoni chiusa in parte da un lastrone di pietra , poiché già da tempo la stessa non riceveva le acque meteoriche e, persa la sua funzione non aveva più il collo di affaccio ; cisterna incautamente colmata a raso all’accollo ( in profondità conserva in parte il suo volume) dalla posticcia pavimentazione messa in opera al tempo della ristrutturazione della stalla .Il lastrone potava un’ iscrizione in latino, cui al tempo non ho dato importanza e di cui oggi mi sfugge il significato . La stalla, a fronte della porta d’entrata aveva una mangiatoia , dalla quale, da bambino , sganasciandosi , vedevo il mulo prendere il fieno : un riluttante e alle volte pericoloso “trattore animale “ , da soma e da spostamento ; tuttavia, l’averlo in stalla era una necessità, poiché il quadrupede era allora l’unico “veicolo” animale che mio padre poteva permettersi . L’acciottolato del pavimento della stalla in pietra di fiume, diseguale, nei suoi interstizi , veniva indirettamente livellato dai rimasugli di paglia , sterco e piscio . Tuttavia, l’allora connivenza stretta uomo-animale che oggi, avulso dal contesto , a posteriori potrebbe sembrare perfino amicale , se non vagamente sportivo, rinvia a condizioni di vita che oltre ad essere state dure in genere erano anche scarsamente igieniche , nonostante la separazione fisica degli ambienti abitativi dalla stalla . Da bambino, ricordo, mi piaceva entrare nella stalla soprattutto perché l’ambiente per via della permanenza notturna del quadrupede, vuoi per il suo fiato vuoi per la sua temperatura corporea un po’ superiore a quella umana , il vano s’impregnava di stallatico , dell’odore del fieno ed emanava un tepore gradevole, rispetto alle stanze del primo piano , sempre un po’ fredde d’inverno , riscaldate indirettamente per convezione dall’unica fonte di calore : il camino, da cui, abitualmente , alla sera , per dare una parvenza di tepore agli ambienti destinati al riposo , si prelevava la brace per ravvivare “il braciere “ e spesso, a tarda sera , si prendeva anche la brace in via di spegnimento per alimentare lo scaldino del ”monaco” ( termine di chiara derivazione conventuale ); quest’ultima era una semplice struttura in legno che infilata con cautela tra le lenzuola , a brace attenuata dalla cenere , preriscaldava lenzuola umide e fredde . Si vocifera che la casa , un tempo fosse stata l’abitazione di un vescovo , pare avvalorarne la diceria l’inusuale disposizione lineare delle tre stanze che da Vico S. Francesco, in modo obliquo si aprono in successione ; l’ultima dà su Via della Pace con un’alta porta-finestra , oggi modificata , che apre sul balcone . I pavimenti ; quello della prima stanza , in mattoni pieni , purtroppo è stato rimosso, quelli della seconda e della terza stanza , oggi conservati, hanno ancora mattonelle con stampo geometrico a colori ; a fil di muro nella stanza di mezzo si conservano alcuni” stipi “ con ripiani interni, atti , appunto, a stipare : “candrelle”, per conservare : salsicce , soppressate, tranci di “capocollo”… sott’olio o in modo più frugale e meno dispendioso, i vasi potevano essere colmati con la sugna ; sui ripiani trovavano posto bottiglie di gassosa svuotate e riciclate (della ditta “Bottiglieri”, il cui laboratorio aveva sede sempre in Via Galterio ) , di salsa, di “pelati infilati a forza nel loro collo stretto , e quant’altro potesse essere di qualche utilità alle donne di casa . Recentemente nello smontare il tetto , ad altezza del soffitto , un tempo con travature di legno di cerro portanti un tavolato i cui conci sovrastanti non sempre erano impermeabili alla pioggia, che infastidente gocciolava dentro un provvidenziale catino di raccolta posto sul pavimento ( tetto rimosso e sostituito in modo incongruo e inopportuno con un terrazzino ). Di recente durante l’ennesimo intervento di ristrutturazione è venuto alla luce qualche metro di un cornicione in gesso con rilievi a mo’ di capitello, rimosso per motivi strutturali . C’era , lo ricordo , dove oggi si apre un cancelletto d’accesso posticcio, un arco diroccato e pericolante in ordinari mattoni rossi e sabbia calcinata , demolito , credo, per l’impossibilità di ripristinarne per intero la volta , E , poi che funzione avrebbe avuto nel tempo avvenire quello che oramai era già un rudere , per giunta esterno all’abitazione ? Lo stesso destino demolitorio che di lì a qualche anno toccò all’arco a tutto sesto molto più ampio e pretenzioso che si apriva centrale sul lato sinistro della facciata della chiesa di San Felice ( all’angolo opposto di fronte alla chiesa, ricordo si accedeva all’antico “Forno del Pupo “ ) le cui mura celavano alla vista dei passanti curiosi la vita domestica che laboriosa si svolgeva nel caseggiato interno che oggi in lontananza appare un multifacciale sghembo , a tratti quasi sgangherato , separando e confinando l’alto muro il piazzale antistante e dando, allora , un aspetto medioevale, quasi monumentale alla facciata della chiesa di San Felice . Racconto della mia abitazione non per vantare un lignaggio di stirpe che non ho, poiché l’abitazione in cui nacqui i miei genitori non l’hanno avuta in eredità, l’hanno acquistata nel primo dopoguerra . Portava al primo piano dell’abitazione in cui vissi la mia prima infanzia e l’adolescenza una scalinata in lastroni di pietra ( un retaggio costruttivo di cui mi vergognavo poiché era fatto con pietre squadrate simili al lastricato delle strade vicinali che portano ai Sassi di Matera , quando, a quei tempi, in giro già si vedevano nelle nuove costruzioni , geometrici , squadrati i primi graditi in graniglia o in marmo ) , la scalinata terminava con un ballatoio avente l’affaccio a mo’ del ricorrente “ puj “( comune a tante case del borgo vecchio che dà su Via Milano) , che estendendosi a sinistra faceva da ponte per l’accesso all’abitazione del confinante Buri . Mi sono attardato nella descrizione al passato della mia prima abitazione ( casa che peraltro non è più la mia abituale dimora ) forse indotto dalla recente , quasi forzata rivalutazione della casa dovuta al lungo lockdown , che di necessità è tornato ad essere l’ambiente sociale prevalente della vita quotidiana.. Tuttavia , a scanso di equivoci, in modo preliminare voglio precisare meglio il mio convincimento rispetto al tempo andato , almeno per tacitare coloro che nostalgici dovessero pensare che i quel passato fosse migliore in termini di qualità della vita o relazionali rispetto all’oggi. Al riguardo, allora, l ‘occhio del vicino non era sempre benevolo e accattivante nei confronti dell’osservato , anzi , talvolta non era meno iperscrutante dell’occhio elettronico delle telecamere di videosorveglianza , del cellulare, quest’ultimi mezzi un” po’ freddi” , ma generalmente neutri che fanno” parlare” le immagini e non esprimono giudizi espliciti , mentre l’occhiuto sguardo del vicino , del dirimpettaio esercitava, magari in modo involontario, un controllo ambientale ravvicinato ,che spesso si connotava di un piglio moraleggiante , tenendo a mente entrate, uscite, intrattenimenti di chiunque entrasse nel suo campo visivo , “registrando” qualsiasi cosa ,coloro che abitavano appena a lato , facessero fuori e talvolta, seccanti , intriganti , intravedendo o sbirciando curiosi , sulla soglia di casa occhieggiavano perfino dentro l’abitazione . Quindi, personalmente non ho rimpianti per il mio passato , sebbene , invero, fosse più sociale e sempre in presa diretta a trecentosessanta gradi e ,soprattutto ,” de visu “ , ma spesso era anche marcatamente più osservativo , e lo ripeto, alle volte benevolo alle volte perfino maldicente, comunque, maggiormente controllante dell’più recente occhio elettronico del cellulare che sbriciola la realtà circostante frammentandola , rendendola di fatto scarsamente utilizzabile per dar conto di vite purtroppo sempre più segmentate dalle immagini che comunque a dispetto della tecnologia a loro imposta oggettivamente permangono ( come biologia vuole) con continuità nell’ambiente , Partire dall’abitazione è solo il pretesto per parlare del mio quartiere , poiché in particolare è la vita sociale che vi si svolgeva che , per ricordi oggi purtroppo frammentati vorrei tentare di ricomporre . E, nel farlo chiedo venia per le inesattezze , per le eventuali improprie associazioni , di luoghi o persone , ma a lungo andare è probabile che la memoria faccia di questi scherzi, essendo quest’ultima affidata alla mia imprecisa ricostruzione personale, di cui sono il solo responsabile . Al tempo della mia prima infanzia l’intorno del mio quartiere era tutto un brulicare di attività artigianali e commerciali . Superando l’ampia facciata della casa dei Mancini, a fronte della chiesa di S. Antonio , c’era la bottega della sartoria maschile dei due fratelli : “i Suppill”, di cui ricordo solo il nome di Guido .Già alle prime luci dell’alba , li vedevo l’uno intento a cucire ad una scura macchina Singer professionale che aveva sul corpo macchina ( che quando era in attività “sputacchiava” in modo incessante dalla sua testa vagamente canina il filo” ) il logo antichizzato dorato ; l’altro , seduto a ribattere le asole o in piedi , curvo a delimitare con il gessetto sul modello dispiegato sul tavolo di lavoro il taglio del vestito o, anche lui , seduto intento ad inamidare , mentre dal retrobottega talvolta già di primo mattino si intravedeva la sorella dei due sarti già intenta a mondare la verdura o a ventilare il fuoco nella stufa che surriscaldava i fornelli , affaccendata nel mettere insieme pranzo e cena . Al mattino , di buon ora, Pietro Pomponio , genitore dello storico impiegato del collocamento “ Dammccill” da una finestella a piano strada del suo scantinato tirava fuori i suoi lunghi tronchi appena sbozzati per lavorarli durante la giornata .Costruiva, assemblando ad incastro i legnami i “ trajn” : smisurate slitte da aggiogare ai buoi per il trasporto a strascico di erba, fieno e quant’altro poteva essere spostato per distanze brevi all’interno della masseria .Con un vetro di bottiglia, instancabile , raschiava fino a lisciarle ben bene , per ore ed ore i manici di zappe, bidenti , asce . forche… Capitava , soprattutto al pomeriggio , a noi bambini che giocavamo rincorrendo in modo scomposto un provvidenziale pallone ( intrepidi e solerti nel gioco anche quando , talvolta , per merenda tra un tiro e l’altro di pallone si mangiava povero : pane spalmato con estratto di pomodoro ) che la sfera di gomma , lanciata incautamente sugli attrezzi disturbasse il suo lavoro e , allora Pietro si arrabbiava di brutto e per farci smettere di giocare cominciava a lanciare, “scote” e semilavorati in legno al nostro indirizzo, talvolta cogliendo nel segno . All’angolo di svolta per Vico S, Francesco a mano sinistra venendo dalla piazzetta di S, Antonio c’era il Salone del barbiere Matassa Amodeo … ; pretenziosa l’insegna “ Salone” scritta su legno , poiché in verità l’ambiente era un vano ristretto che aveva due sedie da taglio, da barba con i poggiamano in ceramica ; a fronte dei due specchi , c’erano alcune sedie ; un “comodino “ al cui interno erano stipate l’una sull’altra le tovaglie dei clienti . Sul ripiano di quest‘ultimo c’erano le riviste della ’ Domenica del Corriere ‘, che “Lulucc “, passata la settimana di uscita del giornale ritagliava in riquadri uguali utilizzando la carta di giornale per ripulire il rasoio durante la rasatura del cliente dai cascami del raso di barba insaponata . In un angolo c’era la sua amata chitarra su cui, specie nel primo pomeriggio, nei tempi morti del suo lavoro , improvvisava delle arie armoniche : “tra le quali ricordo . “: i ggvnatt d gueglnsc , nu qunsglh ‘v vujj da’ s vlat nu mart contnuat a spassjja …“ e, pa scus du profum ( che si acquistava da Cacciavirn, alias Serafino , altro noto barbiere ) … Oppure , accompagnava con la chitarra “ Ting ‘na spos a nu prtll, par nu grrll ,par nu grrll … zi, Cajtanin u ndrill, u, ndrà . arip a port e famm ntrà… E, nelle fresche sere d’estate suscitava in me una piacevole curiosità il vedere i cafoni con le barbe lunghe , i capelli sudaticci seduti sulle seggiole all’esterno del locale allineati sulla strada a destra ed a sinistra della porta d’entrata, spalancata per mitigare l’afa . I clienti , aspettando il loro turno , si intrattenevano confabulando tra loro del più e del meno fino a sera inoltrata , talvolta attardando la chiusura del locale . In quel mio tempo bambino , era stata per me una rivelazione il fatto che tanti clienti si servivano dal barbiere a “ staio” ( recipiente che in passato misurava una certa quantità di grano ); lo capivo indirettamente dai sacchi di grano che alla data concordata per saldare il debito annuo per la rasatura ,per il taglio dei capelli perché vedevo i sacchi i più vari, di ogni misura e colmatura ammucchiarsi scomposti di fronte alla bottega , a lato del vico , contro il muro della casa d “Peppnell”. Se ci si inoltrava oltre lo spiazzo che immetteva in Vico S. Francesco prendendo “ a ball ‘pa “ruv”, ( in discesa) , sulla destra s’incontrava il portone che in passato dava accesso all’abitazione che aveva preso in affitto il fotografo Mario Miglietti : “ u nguacchion” , nomignolo non propriamente azzeccato perché ricordo che lo stesso “pittore” eseguì una serie di pitture murali in colore pastello all’asilo” Mimì del Torto “ , che ben riproducevano per immagini alcuni episodi caratterizzanti la favola di Cappuccetto Rosso .In fondo al vicolo , angolo Corso conte di Torino c’era l’abitazione di “ Lucietta “ , moglie dell’antesignano della rinomata Macelleria Conte . Ogni mattino , mia madre , sul presto mi mandava a prendere il latte per la nostra frugale colazione : pane inzuppato nel latte ( poi, in aggiunta ,:pane e nutella che si acquistava a peso alla drogheria della S.ra Strippa) sempre con la stessa bottiglia che al momento la lattaia , generosamente mi colmava , prelevando con il mestolo dalla tanica del latte munto la sera prima ( allora , senza sponsorizzarlo e senza alcun onere sociale già si praticava il riciclo !) .La macelleria Conte che aveva ad ornamento dei murali che ancoravano gli stipiti della porta d’accesso marmorei , riportava in alto sull’architrave con un uguale rivestimento marmoreo una scritta impressa in rosso: MACELLERIA, ( c’è ancora). La macelleria era una stanza linda che aveva allineati sui muri laterali i quarti gocciolanti a terra sangue di bovini, capre , agnelli. E, quando , raramente , mi capitava di entrare nella “chianca” per acquistare qualche taglio di carne ( che allora, per rendere visibile un certo decoro igienico-sanitario, che io ricordi, era l’unico ambiente commerciale piastrellato in bianco fin quasi al soffitto) ero tutto preso dall’osservare appesi a degli uncini , a lato del bancone del taglio e della pesa delle carni , le carcasse squartate degli animali macellati che oltre a rendere umidiccio l’ambiente emanavano l’odore della carne e del sangue fresco.. In proposito ricordo che da bambino, recandomi a giocare con alcuni compagni nei pressi del mattatoio comunale fui testimone della uccisione di un vitello . Il mattatoio consisteva in una casupola , un ambiente unico con il tetto in legno a due falde sostenute da una modesta capriata , costruito su uno spiazzo in rilievo in un posto brullo e intristente , nonché maleodorante per i rivoli di sangue rappreso frammisto a frattaglie che a fronte dell’ingresso a tratti coloravano, appena a lato , il fondo dell’accenno di un dirupo. .Un posto lugubre da evitare, quello del Macello non solo per la mattanza che evocava , ma anche perché nell’intorno , ringhiosi e,famelici si aggiravano alcuni cani randagi del circondario . Ricordo , quella volta , incuriosito da ciò che potesse accadere all’interno di quel luogo spettrale , non visto dall’interno , mi misi a sbirciare da un buco della porta” sgarrupata “ l’ assassinio di un recalcitrante vitello . Il macellaio, mentre l’animale da sacrificare era appeso, in parte penzolante , con le zampe anteriori , assicurato ad una carrucola mobile a sua volta fissata con un gancio al soffitto ; carrucola che faceva scorrere nel suo incavo una grossa catena collegata alla parziale ’imbracatura dell’animale, mentre un aiutante del macellaio , scartando a destra e a sinistra sul pavimento umido e scivoloso , nel tentare di immobilizzare il vitello, con entrambe le mani gli teneva la testa , della quale ricordo in particolare gli occhi grandi , scuri, terrorizzati. L’ l’animale dimenandosi a vanvera con le zampe posteriori non voleva saperne di disporsi frontalmente al macellaio ; quest‘ultimo , risoluto, armato di un affilato pugnale, appena l’ebbe a tiro, glielo conficcò con violenza in mezzo alla fronte ; copiosi rivoli di sangue fuoriuscirono dalla testa dello scalpitante vitello, che di lì a poco, dopo che il macellaio lo finì, si accasciò rantolante a terra . Per l ‘orrore di ciò che avevo visto , alternandomi con alcuni compagni di gioco, alla fessura della porta scalcinata , pur incuriosito non insistetti nel seguire il successivo squartamento del vitello, ma ricordo che quando incrociavo per strada il carroccio chiuso del macello che in alcuni giorni della settimana , trainata da un mulo condotto a cavezza da un inserviente addetto alla consegna delle carni, smilzo e ossuto ; lo vedevo avanzare con il suo lento scricchiolante incedere, quasi funereo ; il carroccio si fermava a lato della macelleria e, l’uomo caricandosi a spalla il quarto d’animale consegnava gli animali macellati , e allora per associazione, intristente , mi tornava in mente ciò che in un pomeriggio di noia ci era capitato di vedere al mattatoio comunale . Ad angolo, quasi a fronte della macelleria , procedendo da via Roma verso Corso Conte di Torino c’era l’ampia vetrina della gioielleria delle sorelle Leone; ahimè! , delle due, ricordo solo il nome di Amalia Leone , mi sfugge quello della sorella ; qui invece , mi preme richiamare in memoria la loro attività commerciale, poiché rappresenta ciò ne ha caratterizzato il ruolo e la vita sociale di entrambe : orologi, preziosi, e chincaglieria varia che le sorelle Leone sapevano disporre sui ripiani in vetrina con fare leggero , quasi furtivo, spesso incuranti dello sguardo curioso e insistente di passanti che si fermavano ad ammirare il luccichio dei metalli lustrati . Nel tempo , chiusa l’attività le sorelle Leone ,pare si siano definitivamente trasferite a Napoli . Oggi del luminoso negozio , dall’ampia finestra a vetro , a sera straordinariamente luccicante di riflessi metallici , priva della vita dentro e degli oggetti esposti che un tempo l’animavano resta una specie di antro che da almeno un decennio è in ininterrotta ristrutturazione . Proseguendo per Corso Conte di Torino verso il “Portello “ sulla destra s’incontrava la rivendita di Sali , Tabacchi e Valori bollati di Pasqualino “ u salarol” , l’ambiente, piccolo , ma ospitale aveva addossato sul muro a lato del banco una panca sulla quale spesso alla sera prendevano posto i cafoni , i braccianti che dopo essersi riforniti di tabacco lì s’intrattenevano dopo il rientro dai campi discutendo del più e del meno, dei fatti del paese . Incuranti del tempo tiranno, s’ attardavano incuranti di rientrare in famiglia , arrotolando sigarette con le cartine , incollate con una passata di saliva , con gesti lenti e compassati ; qualcun’ altro prendendo una pizzicata di tabacco sfuso dalla tabacchiera caricava la pipa , di coccio che aveva per il lungo uso la canna ingiallita : i fumatori di pipa dopo aver aspirato il tabacco combusto , rilasciavano intorno ampie volute, di fumo spesso straordinariamente dense, circolari , altri , più impettiti fumavano sigari, che giudizioso il tabaccaio lasciva scegliere agli acquirenti da una scatola che alla rinfusa ne conteneva a decine , chissà perché, ricordo , erano preferiti quelli scuri ; me li mandava a comprare nonna Rubina Tomei per nonno Antonio ; sigari che a casa parsimoniosa, ostentando una certa insolenza gli spezzava a metà per la sua abituale fumata serale ,conservandogli l’altra metà per il giorno dopo. Ma i più fini ( e più giovani) chiedevano il pacchetto di sigarette “ Alfa “ senza filtro ed ancor più le “Nazionali” . L ‘esercizio di Pasqualino , specie nelle serate invernali diventava una specie di fumeria coniugando con efficacia e “bon ton” commercio e ricreazione diventando per i più assidui frequentatori il ritrovo sociale del dopolavoro . Più avanti di un isolato c’era il portoncino grigio arcuato delle sorelle Riccitelli : specializzate in ricamo; tante adolescenti , convinte dalle madri che imparare il ricamo fosse importante per riempire i tempi morti delle future casalinghe ,venivano mandate da loro ad imparare l’arte. Anche le suore dell’ “Asilo Mimì del Torto “ , al pomeriggio, ricordo a mente : Suor Loreto , suor Ilaria, suor Crescenza ( chi fosse la maestra ricamatrice non so) accoglievano le ragazze che volenterose volevano imparare il ricamo . Subito, a mano manca , prendendo per Via della Pace dallo slargo che si apriva sulla traversa da Corso conte di Torino, ad angolo a sinistra c’era il negozio di tessuti, vestiti e tendaggi della S.ra Giordano, moglie del Priore della Confraternita di S, Antonio . A fronte dell’abitazione dei Giordano c’era l’abitazione del veterinario dott, Mario Salvatorelli, già Sindaco di Guglionesi nei primi anni sessanta del secolo scorso e , poco più avanti , ad angolo, nel seminterrato dello stesso edificio aveva il laboratorio tessile la tessitrice Amelia che per buona parte del giorno compattava con colpi secchi e decisi il filo che si snodava dalla navetta che veloce correva di traverso da destra a sinistra del telaio srotolando i rocchetti che filo su filo lentamente formavano l’ordito . La donna , insieme ad alcune apprendiste , passava al telaio molte ore della giornata . . Al pomeriggio, nel nostro tempo libero spesso trascorso a giocare facendo avanzare a forza d’ “zznnacch” , in un percorso tracciato col gesso sulle scure basole della pavimentazione stradale , un tappo di bottiglia “Gancia rossa” che qualcuno s’era scolato al bar , riempito con cerchi di sughero che portavano su quello terminale l’effige in tondo del campione preferito della squadra di calcio cui ciascuno di noi teneva. E, quando Amelia sentiva una bestemmia , una parolaccia , lasciava il lavoro e, usciva furiosa , e con l’ago, se le capitava di acchiappare il maledicente pungeva sul dorso della mano il monello che l’aveva proferita . Sempre nello stesso slargo , quasi dirimpetto alla casa dei Salvatorelli c’era l’abitazione del camionista Dario Castoro che nelle pause del suo lavoro lasciava parcheggiato un lungo camion verde, lo stesso che prima del sei maggio in occasione del pellegrinaggio alla basilica di S. Nicola di Bari , chiuso il cassone con l’incerata e allestite delle panche all’interno per ospitare i pellegrini , con la cabina del camion in ogni dove possibile addobbata ed impiumata con una varietà multicolore di penne di volatili ; e, forse, ma non lo ricordo con esattezza , perfino infiorata , ben allestito per partire per il pellegrinaggio . All’epoca della trebbiatura del grano invece dal cassone del camion sporgevano alcuni lunghi e robusti assi in legno che disposti a mo’ di piano inclinato tra il mezzo e il piano di carico dell’aia permettevano ai facchini della omonima “Compagnia dei facchini” di Guglionesi di caricare i sacchi da quintale , che ad uno ad uno s’ addossavano in file regolari sul camion. Procedendo per via della Pace non posso non ricordare le sorelle “Gannit e Memel “ Di Falco , che avevano al secondo piano dello stabile che io abitavo una frequentata sartoria da donna , Me lo ricordo poiché sovrastando il laboratorio le nostre camere il rumore continuo delle pedalate sulla macchina da cucire ed il vocio sommesso , che seppure attutito comunque filtrava da basso : un rumore e un chiacchiericcio quotidiano che si acquietava solo la domenica e le feste comandate e, non mi permetteva di dormire al pomeriggio . Più avanti , sempre in Via della Pace , nell’ultima casa dell’isolato , ad angolo con via Galterio c’era l’attività artigianale du “Cuch” ( il cuoco; dell’artigiano non mi è noto né il nome né il cognome , ma ne ricordo il mestiere era così soprannominato poiché gli piaceva non solo cucinare, ma amava sopratutto mangiare , e tanto, ancor più se il cibo era ben innaffiato dal vino che allora si acquistava “ sfuso an d’ u precnas “ ) calzolaio o meglio ciabattino per via della riparazione delle ciabatte delle casalinghe, scarpe piatte , comode, adatte alle donne ( e ai maschi pantofolai , pochi e benestanti ) nell’ affaccendarsi in casa e, il mestiere dello “scarparo “ poiché “ u Cuch” su ordinazione creava di sana pianta o risuolava le scarpe dei contadini che dovevano essere robuste e resistenti poiché gli scarponi , soprattutto quelli chiodati , come i ferri di cavallo, anch’essi chiodati sugli zoccoli ungulati dei quadrupedi dagli allora fabbri come gli appartenenti alla genia dei Terzano a “ni ferrar, di Ciccarone … , I ferri di cavallo , le suole chiodate sono artifici dei piedi, delle zampe che portavano , come fossero in simbiosi, l’uomo e il quadrupede al lavoro , spesso a “ni lmt d’ Santo Patr”, lontano dal paese . E nel concludere , il giro delle attività artigianali e commerciali dell’isolato e dei dirimpettai dello stesso non posso non menzionare Franco ”Marchtt” , un uomo ben temprato dal duro lavoro; che nella sua vita lavorativa era stato : manovale, taglialegna, bracciante … Ma lo ricordo soprattutto per la sua lambretta , perché il veicolo portava sulla carrozzeria anteriore una scritta ,tracciata a mano con vernice rossa , augurante e già a quei tempi anticipava le norme sulla sicurezza stradale : “Franco , non correre , ad ogni curva la morte è in agguato …” E , per chiudere , sebbene abitasse , insieme alla sorella la casa paterna dei Caruso , devo almeno una menzione a Pasqualino Caruso , ( con me è stato generoso; quando rinnovò la sua biblioteca, mi regalò , nella mia prima adolescenza , alcuni libri di letteratura classica , greca e latina, e perfino alcuni volumetti di Shakespeare ). Merita di essere ricordato , in primis, perché è l’autore del “Deh! Stenti Adamo Santo , la man paterna ancor”… l’inno al nostro patrono S. Adamo e, perché, Pasqualino Caruso, devoto e appassionato di Lirica nonché delle belle composizioni musicali , ogni venerdì Santo , al passaggio della processione serale della Passione , posizionava gli altoparlanti sul davanzale della finestra di casa ( abitava al Portello) e in concomitanza dell’avanzare della mesta processione, verso il suo caseggiato ( a quel tempo, con un cupo riverbero luminoso perfino fiaccolata, e in alcuni luoghi più aperti attraversati le due ali del corteo in più slarghi venivano rischiarate dalle vivaci alte lingue del fuoco Santo che i giovani del quartiere, accatastando fascine da giorni preparavano ) La processione s’incentrava nell ’Addolorata che affranta seguiva il Crocefisso deposto, entrambe le statue portate da incappucciati e possente , diffuso dall’apparecchio di Pasqualino risuonava nell’intorno “lo Stabat mater “; che , con altra cupa armonia , sovrastava i cori , a tratti sguaiati e, i gridati al cielo notturno dell’affliggente “ferit, e ferit, ferite quest’…” degli sgolati giovanotti , per l’occasione improvvisatisi cantori , che in tanti si accalcavano dietro i portatori del “ Crocione”; una gran croce nera lignea ornata da un drappo bianco . E, dopo aver rivisitato, anche in memoria gli allora “maestri” delle attività artigianali e commerciali che un tempo fervevano nel mio quartiere , posso ritenermi un privilegiato per l’essere stato testimone seppure occasionale del loro lavoro individuale che osservavo giorno dopo giorno, anno dopo anno mutare in lavoro sociale e che lo stesso lavoro di necessità sosteneva un’economia collettiva ed una rete complessa di relazioni sociali che oggi, cessate quelle attività si sono estinte . Con le loro attività , con Il mestiere con cui ogni giorno si presentavano alle loro clientele , al pubblico ; ciascuno ,con una propria irripetibile impronta personale ha alimentato le radici il fusto e poi i rami della nostra identità sociale ( un albero senza radici o poco “ radicato” è sempre in balia dei venti ideologici o pseudo culturali che possono divellerlo come un fuscello ) , del nostro essere guglionesani.I compaesani che ho qui richiamati conducevano attività , arti e mestieri che prevedevano il quotidiano relazionarsi con il pubblico o perché le stesse affacciavano sulla piazza , sulla strada e, non mi è mai parso che alcuno di loro volesse mai sottrarsi allo sguardo benevolo , e spesso benaugurante dei passanti, dei clienti . Nel 1960 o giù di lì, quello che fu il mio quartiere era abitato da circa 39 famiglie , che includevano in modo vario , alcune perfino con una verticalità genetica patriarcale, all’incirca 131 persone ; oggi, di nuclei familiari ne restano più o meno una decina , non più di 24 individui . Con questo trend negativo è probabile che tra vent’anni degli attuai residenti non ne resti alcuno ; d’altronde è anche presumibile che le molte abitazioni oggi desolatamente chiuse , poiché sono e, lo diventeranno ancor più economicamente appetibili in futuro , possano essere interessate da una sperabile colonizzazione non autoctona . Delle persone ricordate sono sopravvissuti all’oblio soprattutto i gesti compiuti nel loro lavoro quotidiano ; gesti che avevano ,seppur implicita ,una causa ed una motivazione, quindi , un inizio ed una fine . Anzi , a rifletterci bene, la somma di tali ripetitivi eventi del loro mestiere , negli anni ha scandito la loro vita quotidiana , la stessa che io avevo osservato e di cui ero stato testimone . Il radere un cliente da parte del barbiere ; il prendere le misure del sarto per cucire il vestito dal metro e mezzo di stoffa prescelto o, da parte della sarta nel misurare, a modello realizzato, la gonna plissettata dalla cliente ; lo scattare la foto in bianco e nero con il predisponente “guard ammé “ del fotografo ; nel far osservare un gioiello, un ninnolo… alla” preziosa” cliente della gioielleria… sono, quelli ricordati tutti gesti ,che si configurano come piccoli eventi quotidiani individuali e sociali allo stesso tempo . Azioni importanti, per sé e per gli altri , che nel loro fine vita, quando tutte queste persone hanno perso la luce degli occhi sul mondo , sono confluiti nell’ ORIZZONTE del più grande e definitivo evento esistenziale che a ogni vivente riserva la vita . Così è stato, perché tutti coloro che qui ho ricordato sono stati attratti nel misterioso , fatale BUCO NERO della morte , da cui tutto entra e nulla esce più della vita anteriore, un fine a cui consapevoli o inconsapevoli inesorabilmente tendiamo. Così è stato, perché queste persone che pure , ad un tempo, mi sono vissute accanto, oggi non sono più. Arcangelo Pretore


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