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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 21/3/2009 ● Click 3674

"Esperienze di vita di scuola", Ferdinando Gizzi, cap. 8


Ferdinando Gizzi © FUORI PORTA WEB

Ferdinando Gizzi
Esperienze di vita di scuola
(diario di un direttore didattico)

8
S E C O N D A P A R T E
1 9 6 4


La preparazione teorica si arricchisce ogni giorno di più e si sposa con la pratica. Vivo una vita densa di impegni che mi vengono ripagati dalla stima e dalla favorevole considerazione di tutti.
Le mie sono sperimentazioni che mi danno tanto tormento, ma che, a risultato ottenuto, si rivelano molto proficui.
Un esperimento di tal genere è dato dall’introduzione nella mia classe di una nuova tecnica didattica: la digitopittura.
I risultati del mio lavoro sono così evidenti e positivi che sono chiamato ad illustrarlo ai superiori e colleghi. Ancora una relazione. Non nascondo di essere tanto soddisfatto. Ecco la mia relazione:

Dice il Marcucci:” lo spirito è un fascio di attività, che hanno un unico centro espresso dal pronome personale “io”. Come lo spirito, anche il sapere è unità e vive finché è nello spirito”.
(…)
omissis

Lo stesso Hessen chiarisce nella sua opera “Struttura e contenuto della scuola moderna” questo concetto, quando asserisce che la lingua, il disegno, il lavoro manuale, non costituiscono materie isolate, ma sono dei mezzi espressivi dello scolaro e, quindi, elementi o aspetti dell’insegnamento collegato.
Non senza significato, quindi, noi preferiamo parlare (applicando i programmi che molti continuano chissà perché a chiamare nuovi pur dovendo tra breve celebrare la loro decennale vitalità) di attività (formative, informative, espressive, strumentali, manuali e pratiche), più che da materie separatamente collegate.
Attività cioè come centro della lezione e in cui il maestro appare come coadiutore e collaboratore alle ricerche ed alle esperienze degli scolari.
Ma (mi direte) noi dobbiamo discutere di cose più modeste, e la mia digressione che vi può apparire alquanto noiosa, diventa necessaria per i motivi che andrò ad illustrare.
Oggi ci stiamo occupando, in questo nostro incontro delle attività espressive e in particolare di quelle grafiche. Dico in particolare perché si sa che l’espressione, in senso strumentale, può essere grafica, plastica, orale, canora, mimica.
Il disegno, la pittura, il mosaico, la decorazione, la digitopittura, sono attività che costituiscono forme di espressione in cui il fanciullo si mostra al maestro più spontaneamente per “quello che è”, ed in cui è possibile, con l’armonioso incontro tra docente e discente, realizzare il “dover essere” dell’alunno.
Quante volte, infatti, l’uso di un colore anziché di un altro, la composizione di un paesaggio, la monotona ripetizione di una forma, di un movimento, non ci danno, anche se in maniera non proprio scientificamente sicura, la sensazione di quelle che sono le esigenze dell’educando, i suoi tormenti, i suoi bisogni !
Quante volte non ci si palesano drammatiche situazioni psicologiche, come l’insicurezza di un affetto, il bisogno di una mano carezzevole ! Oppure quante volte quel disegnino estroso non ci indica la necessità di stringere la briglia ad una fantasia malata, di porre un freno, a tempo e luogo, ad un triste andare alla deriva ! È Proprio così. E non occorre davvero scomodare Freud e tutti gli altri psicanalisti, psicologi o alienisti per comprovare quanto quotidianamente il più superficiale di noi osserva, rileva, studia al fine di trovarvi gli elementi positivi che possano far fruttificare il proprio magistero.
D’altronde mi sembra che molto chiaramente traspaia questo riconoscimento dell’importanza pedagogica e didattica di tali attività, da tutti i programmi che si sono succeduti dal 1923 al 1955.
Consensi, poi, per tutto quello che si è tentato di fare in questo campo, non ci vengono solo dal Rousseau, ma insieme dal Pestalozzi, dal Fröebel, da Gabrielli, dal Tolstoi, dal Lombardo Radice. Non a caso, poi, in particolare, gli attuali programmi affermano esplicitamente la necessità che il fanciullo sia lasciato:

a) libero di esprimersi a modo suo attraverso l’attività grafica e pittorica, così come effettivamente pensa, sente, fantastica;
b) libero di esprimersi sugli argomenti che più lo interessano o che egli predilige ad altri per qualche motivo sentimentale, affettivo o altro;
c) libero anche di usare i mezzi grafici, pittorici, plastici a lui più graditi.

La scuola italiana per lungo tempo si è limitata nell’espressione grafica all’uso della matita e dei pastelli. Se noi esaminiamo il disegno dal punto di vista psicologico, dobbiamo convenire che si è seguita una strada limitata. Nessuno può disconoscere, infatti, il primo mezzo grafico e pittorico che il bambino usa spontaneamente è il suo “ditino” e non la matita. Col ditino fa i suoi disegni per terra, sulla sabbia, sui vetri appannati della finestra.
Peraltro non bisogna trascurare di sottolineare quelli che sono gli aspetti puramente ricreativi di tale attività. Bisogna però intendersi sul significato e sulla ragione d’essere della cosiddetta “ricreazione”. A me sembra che la scuola, quella degna di questo nome, non possa essere che ricreativa; cioè la scuola non può essere organizzata in maniera tale che alcune materie siano impositive ed altre ricreative. In altri termini: tutte le materie, ovverosia tutte le attività scolastiche, tutto il “fare scuola” devono essere una ricreazione, cioè una nuova creazione della cultura, del sapere. Infatti solo quando si realizza questo ri-creare, si apprende con gioia, senza imposizioni dall’esterno, con atto autonomo e quindi con libertà. Solo in questo senso mi sembra che debbono essere considerate ricreative le attività espressive grafiche, al pari cioè di tutte le altre attività.
Tutto ciò premesso, è giunto il momento di illustrare l’esperimento di digitopittura.

Non conoscevo i prodotto SIDOL che attraverso alcuni annunci su giornali e riviste scolastiche. I miei scolari, che sono ora di quinta classe, hanno cominciato sin dalla terza, mediante opportune esercitazioni, ad acquisire una certa tecnica che, in un certo senso, molto sembrava togliere alla pura spontaneità.
In quarta classe eseguivano a puntino il disegno a matita (dal vero e a memoria) e quindi iniziavano la colorazione, influenzandosi a vicenda, e non poco, per dosare i colori, nel distribuirli secondo determinati (e vorrei dire predeterminati) rapporto di tonalità e di equilibrio. Parecchi di essi si rivelarono piccoli autentici capolavori.
Ciò nonostante decisi di tentare altre vie, indirizzando loro verso altri mezzi espressivi.
Una bella mattina (eravamo verso la metà del primo trimestre) portai a scuola una scatola di colori-dita.
Non nego che ero molto perplesso ed esitavo ad affidare questi vasetti di creme colorate ai miei ragazzi. Mi prefiguravo una scena di mani sporche, di baffi rossi, di sberleffi. Dovetti constatare subito, per la verità, che il mio era un timore senza ragione, quasi una incomprensibile paura che spesso attanaglia chi vuole spingersi avanti ed uscire dal vuoto formalismo, per realizzare una scuola di gioia e d’impegno per il fanciullo. Dunque, portai i colori-dita e, prudenzialmente li affidai ad un solo ragazzo. Ricordo che gli alunni lavoravano intorno ad una relazione scritta su di un momento storico da poco studiato. Ognuno aveva fatto a casa le personali ricerche ed io avevo chiarito loro i punti oscuri, illustrando determinati aspetti del periodo storico studiato. Si trattava, in particolare, della resistenza opposta dai fiorentini all’invasore Carlo VIII. Mentre i ragazzi erano interessati al loro lavoro, chiamai uno di loro a cimentarsi con i colori-dita per illustrare il personaggio. Lo lasciai libero di fare.
Per la verità tracciò un disegno prima a matita e poi cercò di colorarlo. Dico “cercò” perché in effetti non poté rendere quello voleva esprimere. Aveva disegnato, infatti, su di un foglio di carta di media grandezza un soffitto ad ampie arcate di un palazzo gentilizio con alla parete di fondo alcune finestre e sotto, troppo in piccolo, una folla di cortigiani con le figure, in maggior risalto, di Carlo VIII seduto e di Pier Capponi in piedi e con il braccio teso, in atteggiamento fiero. Io, che di tanto in tanto sbirciavo il suo disegno, lo lasciai fare, non tacendomi la difficoltà che avrebbe incontrato nel colorarlo con le dita, ben più massicce di un pennello.
Continuò, giostrando col mignolo e mentre le finestre riuscirono di grande effetto, la folla si perse e riuscirono malconci Carlo VIII e Pier Capponi. Si era rotto il gelo, però! La paura mi era passata e tutti i ragazzi osservarono interessati il lavoro del compagno.
I colori erano vivacissimi e, ad osservare bene, da lontano si capiva meglio la scena. Da vicino disturbavano forse di più gli sconfinamenti al di là del disegno nero della matita, di quel vivido rosso, di quel bianco sporco, di quel giallo brillante. Non mi riuscì difficile far loro notare che non occorreva usare prima la matita e che le dita, da sole, avrebbero potuto stabilire l’ampiezza della figura e il contorno di un oggetto. Continuarono così gli esercizi, che in un certo senso, piacquero di più ai miei ragazzi. Fu così che, successivamente, furono realizzate composizioni vivaci, paesaggi multicolori e di immediata intuizione, figure anche se goffe ed incerte ma di grande realismo e cariche di evidente drammatica espressività.
Questa tecnica innovativa ancor oggi è da me inquadrata in tutto l’insegnamento, in aderenza a quell’unità, di cui ho parlato all’inizio della relazione. E’ un mondo meraviglioso quello che scoprono i ragazzi con la digitopittura.
Correggere i loro lavori?

Ma nemmeno per sogno. Se ci ponessi mano, distruggerei tutto.
Rileggiamo, a tal proposito, un passo del 2° libro dell’Emilio roussoniano, che mi pare assai significativo e la cui chiarezza, vivacità ed attualità è sempre valida:

Tutti i bambini si ingegnano a disegnare, ed io vorrei che Emilio si dedicasse a questa arte ... Mi guarderei bene, però, di dargli un maestro di disegno. Io voglio che gli sia maestra solo la natura, e modello gli oggetti che essa presenta. Né voglio che dell’esercizio del disegno sia solo a godere; egli mi avrà come suo emulo. Ma non gli farò sentire la distanza fra me e lui, e stimolandone, senza averne l’aria, il progresso, andrò di pari passo con lui. E avremo colori e pennelli e allumineremo, dipingeremo, pasticceremo insieme.

E’ tutto qui, ieri come oggi e come sempre, il più grande e significativo valore della scuola: guidare l’alunno affinché egli possa cominciare a risolvere da sé i problemi della vita e della sua interiorità.

PARTE TERZA

SEMPRE PIÙ IN ALTO

a) Coadiutore di Pedagogia

1966 - Nominato dal provveditore agli studi, oggi prendo possesso della cattedra di Esercitazioni didattiche nell’Istituto Magistrale di Guglionesi. Sono passato dal 1° al 3° piano dove ha sede la scuola, ho lasciato i miei alunni di IV elementare mista per insegnare nelle classi III e IV dell’Istituto Metodologia, didattica, letteratura informale. Mi rendo subito conto che con i giovani è necessario tenere un diverso atteggiamento e rapporto.
Primo giorno di scuola, primo impatto con una nuova realtà.
Anche oggi annoto il dramma del primo giorno di scuola. Il programma da svolgere s'articola in una parte teorica ed una pratica. Per rompere il ghiaccio comincio subito con una nota pratica, suggeritami da un'alunna, la quale mi chiede come ci si debba comportare dinanzi a dei bimbi che arrivano per la prima volta a scuola.
Il primo giorno di scuola è veramente drammatico per tutti: per i figli i quali iniziano un’esperienza vitale nuova; per i genitori che li aiutano a staccarsi dalle loro cure premurose e a volte soffocatrici, anche se un po' attenuate dalle prime amicizie con i coetanei; per i maestri che, consapevoli della grande responsabilità del loro compito, interrogano in ogni sguardo di bimbo a loro ancora sconosciuto, l’altro sconosciuto, cioè l’uomo che essi s'apprestano a formare. Quello che bisogna subito dire è che tutto quello che sto dicendo non riguarda chi nella missione educativa ha una lunga esperienza. Essi già sanno cosa sia la scuola dalla cattedra; sanno cosa significhi insegnare e come insegnare.
Tutto quello che sto dicendo - dico loro - riguarda coloro che maestri come voi ancora non sono, ma intendono farsi, vorranno farsi. E non per favorire l’illusione che voi possiate trovare nelle mie parole tutte le risposte, più o meno prefabbricate, ai numerosi e concreti problemi che l’insegnamento porrà a voi innanzi giorno per giorno. Anzi tutto quello che penso e dico è per eliminare dalla vostra mente il presupposto per cui far scuola sia cosa facile. Essere maestro vuol dire farsi maestro. E maestro si fa soltanto chi chiede alla sua interiore ispirazione il consiglio, attimo per attimo, su ciò che deve fare e come lo deve fare.
Non si è maestri soltanto perché si è conseguito un diploma che abilita ad una delle professioni più difficili, non si è maestri perché si sono superati gli esami in un concorso.
Maestri si diventa e si è realmente soltanto il giorno in cui si sarà superato il più difficile esame che impongono i bambini che si incontrano per la prima volta in un’aula scolastica sovraccarica di aspettazioni e di ansie da parte di tutti: degli scolari e del maestro.

Il dramma del primo giorno di scuola a questo tende: mettere subito a fuoco la condizione, anzi le condizioni in cui, lasciati i banchi al Magistrale e sollevato l’animo dalle preoccupazioni di dover ripetere la lezione al professore che ascolta, un’altra e ben più grave preoccupazione s’impadronisce dell’animo del maestro alle prime armi: che fare? come fare?
Ricordo sempre la confessione che mi fece un vecchio amico maestro dopo il primo contatto con gli scolaretti di una seconda elementare:

Quando appena diciottenne - mi diceva - ottenni la prima supplenza e fui solo con gli alunni nel chiuso di un’aula scolastica, mi sentii preso dallo sgomento. Il mio primo pensiero e il mio primo istinto furono di scappare via. Venticinque alunni mi “squadravano”; cinquanta orecchie erano pronte ad ascoltare le mie parole. Venticinque sorrisi carichi di malizia e di aspettazione dubbiosa mi circondavano di un’atmosfera che non era proprio favorevole. E tutto ciò, naturalmente, accresceva il mio sgomento. Che cosa dovevo dire e, soprattutto, che cosa dovevo fare? Ripensai a tutti gli anni passati tra i banchi delle Magistrali, a tutto quanto avevo studiato: al latino, all’italiano, all’algebra, a tutte le lezioni impartite dalla cattedra. Speravo di ricevere un aiuto da quello che avevo imparato. Speravo che mi porgessero un gancio al quale sospendere la mia inesperienza. Quanta pedagogia avevo studiato, o avevo creduto di studiare! Quanta letteratura! Quanta geometria e quanta algebra! Sapevo risolvere le equazioni di secondo grado, estrarre le radici quadrate e cubiche; sapevo anche un po' di inglese e di storia dell’arte.
Non sapevo da dove cominciare. Non sapevo nemmeno che linguaggio adoperare. Ai miei tempi - chiariva - non c’era il tirocinio e nessun contatto preventivo avevamo con la scolaresca. Mi sentii disperatamente solo e senza aiuto. Nel silenzio, che sempre più si caricava di impaccio, d’improvviso mi venne un’idea: e se domando a questo bambino del primo banco come si chiama, e inizio con loro un colloquio che cercherò poi di continuare con gli altri? Ma come comincerò il mio discorso? Volevo dire: dovrò parlare in lingua o servirmi del dialetto?
Mi attenni al dialetto e subito la prima sensazione di disagio disparve.

Ho ancora oggi presente queste parole, nel momento in cui mi trovo a contatto con giovani che presto saranno maestri e si sederanno su di una cattedra. Per tale ragione mi propongo, in questo mio nuovo impegnativo lavoro, più che ad ampliare la cultura pedagogica, ad offrire ai futuri maestri delle esperienze perché li aiutino a prepararsi al grande momento del “fare scuola” e non li costringo ad uno studio solo teorico ma essenzialmente pratico, in modo da centrare i problemi vivi e concreti dell’insegnamento.
Per tale motivo mi propongo di tenermi lontano da ogni indicazione teoretica, che avrebbe soltanto carattere di un complemento, più o meno utile, allo studio della pedagogia generale della Storia della pedagogia. Preferisco perciò l’orientamento pratico, l’esempio, che vale più di un discorso ben fatto, ed è più utile a promuovere lo spirito del maestro, confortato da quello che scrive in questi giorni un Maestro della Pedagogia italiana, Luigi Volpicelli, il quale appunto mette in guardia coloro che, in nome di una preparazione solo teorica, evitano di proporre proprio i problemi veri e concreti, quelli di cui ragionano Rousseau nell’Emilio o nel Contratto Sociale, o Locke nei Pensieri sull’Educazione.
Anche quando il pensiero va al Pathèma di Platone di fronte all’immortalità dell’anima o alla problematica ansiosa di Pestalozzi o Fröebel ed alle loro grandi questioni del pensiero pedagogico la mente si rivolge ai problemi vivi dell’insegnare.
Né tralascio di delineare il problema del metodo, o quello del carattere dell’educazione come fatto ambientale, come prosecuzione ed approfondimento della prima educazione familiare, come fatto etnico o folcloristico, e quindi come fatto essenzialmente naturale di attività spontanea.
Intorno a questi momenti essenziali dell’educare secondo natura, ossia secondo l’ambiente e il reale sviluppo psichico del fanciullo i miei argomenti si articolano sui problemi dell’autorità e della libertà, sui fini dell’educazione e i compiti della scuola. particolare attenzione mi propongo di riservare alla scuola intasa solo come scuola del leggere, scrivere e far di conto, per mettere in evidenza il carattere della scuola di oggi, che ha altre mete ed altri compiti, divenendo sempre più scuola di orientamento e di sviluppo delle attitudini al lavoro ed alla professione qualificata; scuola di prima qualificazione delle attività umane che tenga conto dello sviluppo assunto dalla vita sociale della tecnica al servizio della scienza e dell’economia al servizio dell’umanità.
Per quanto riguarda le esperienze di tirocinio (da fare sul campo) esse bisogna che siano orientate dal contatto con i giovani alle migliori e più ispirate soluzioni delle difficoltà poste all’insegnamento. Né mi propongo di tralasciare di evidenziare, man mano che se ne presenterà l’occasione, le migliori e più ispirate soluzioni delle difficoltà poste dall’insegnamento effettivo.
Non senza aver anche solo in forma teorica tratteggiato il problema dell’avviamento alla scrittura e lettura secondo il metodo globale del Decroly, quello di insegnare a risolvere i problemi col metodo attivo, uno sguardo va dato anche al materiale didattico sussidiario proprio del nostro tempo ed al suo uso pratico: la radio, il film, la televisione e a tutte quelle esperienze che hanno dato vita alle scuole nuove ed ai metodi di lavoro per gruppo, dei progetti, dei laboratori, delle cooperative, delle stamperie. Questo, a somme linee, il programma che mi propongo di svolgere nella mia attività di docente di un Istituto superiore.
Spero soltanto che esso rispecchi le attese dei giovani affidati da oggi alle mie cure.

1967 - È passato solo un anno e sento più che mai il desiderio di migliorare la mia preparazione professionale, la quale spazia per ora per altri campi del sapere. Mi è di aiuto la vasta biblioteca dell’Istituto, ricca di opere di grande valore letterario e culturale. La biblioteca è stata affidata a me per farla funzionare nel modo migliore e arricchirla di nuovi acquisti.
Divento così “topo di biblioteca”, leggo, leggo sempre, anche in quei pochi ritagli di tempo, nelle ore considerate dei buchi tra un insegnamento in una classe e l’altra.

1968 - Oggi si è riunito il Collegio dei Professori e sono stato eletto membro del Consiglio di Presidenza. Con un altro collega, Tonino, bisogna collaborare col Preside al fine di assicurare un buon andamento della scuola. E’ per me motivo di orgoglio ed intima soddisfazione. Il Collegio è stato chiamato anche a discutere il modo in cui, su suggerimento ministeriale, bisogna celebrare il settimo centenario della nascita di Dante.
Sono stato pregato di tenere una relazione in proposito. Ecco la relazione , che viene letta nel teatrino della Scuola alla presenza del Corpo docente e di tutti gli alunni che frequentano l’Istituto.

(…) omissis

C) Visita alle classi

1968 - Il piano di visite alle classi rientra nella parte pratica del programma e viene attuato proprio “sul campo”.
Oggi ci rechiamo in una classe Prima, dove un maestro s’impegna ad applicare un suo metodo personale, ed è chiamato ad illustrare agli allievi-maestri il suo personale approccio all’insegnamento in una prima classe.
Il suo metodo o espediente consiste nella esposizione di tanti quadratini in legno bianco, sui quali sono scritte le lettere dell’alfabeto nella loro doppia forma, maiuscola e minuscola.
L’azione comincia con lo scompigliare i quadratini; poi ne prende uno a caso, lo alza alla vista di tutti e domanda: “Che cosa è questo?
Tutti insieme rispondono esattamente. Qualcuno, però, sbaglia; allora egli si ferma a fargli osservare la particolarità della lettera mal conosciuta, aiutando la memoria con gli esempi, le somiglianze ed altri espedienti mnemonici. Gli alunni debbono ricordare che la S somiglia al serpente; la B a due gobbe sovrapposte, e via dicendo.
Poi riprende a far leggere mettendo due quadratini accostati l’uno all’altro dando corpo alla sillaba e così via.
Ecco la sua novità: insegnare a leggere e scrivere con i legnetti!
Gli allievi-maestri si sono molto interessati a questo espediente didattico. Ma mi si permetta una parentesi: il metodo usato da questo maestro non è lo stesso usato da un certo Autore Giulio Bassillo, il faceto autore di ben trenta romanzi nel lontano 1842?
Non somiglia un po' il suo al metodo globale usato oggi in quasi tutte le prime classi delle elementari? E allora dove sta la novità?

D) Il Tirocinio è indispensabile?
E’ passato oltre un lustro da quando sono entrato nell’Istituto Magistrale ad insegnare didattica e metodologia.
Forse tra poco lascerò anche questo incarico per un altro più prestigioso e remunerativo.
Ho fatto il concorso direttivo ed attendo l’esito delle due prove (una di cultura generale ed un’altra di Diritto e legislazione scolastica) che spero a me favorevole. Alcune considerazioni debbo pur fare prima di lasciare quest’incarico. Il tirocinio è utile?
Nessuno lo nega e tutti, chi più chi meno, abbiamo fatto un tirocinio nella vita. La vita è maestra.
Alle allieve-maestre, che in tono accorato , mi hanno sempre chiesto in questi cinque anni di non sapere da dove cominciare a fare scuola e a svolgere un tema di didattica (come io pretendo sempre), ho sempre risposto di far ricorso ai ricordi della loro vita di scuola, e rendere quei ricordi attuali; ai ricordi, cioè, di quella maestra di prima classe la quale presentava loro le figurine di ...... per insegnare la lettera dell’alfabeto corrispondente; oppure a quella maestra di terza classe che incominciava il suo insegnamento facendo osservare le erbe, i fiori, gli animali, il paese.
A tutte ho sempre unito l’esempio di figure di educatrici ed educatori, di cui sono pieni le pagine di pedagogia.
Come non parlar loro di Ada Negri, la poetessa dell’impeto lirico, la quale ad appena diciotto anni si metteva in viaggio con sua madre, da Lodi, dove abitava, per Motta Visconti, chiamata a supplire, in quella località, la maestra di prima elementare maschile, la quale era improvvisamente partita per l’Argentina?
Ada Negri aveva condotto sino ad allora una vita claustrale, tutta nascosta nella sua povertà. Abitava con la mamma due stanze al secondo piano di una casa. Le stanzette erano bianche di calce, lucenti di pulizia e dai balconi si poteva osservare il vasto giardino recintato tutto verde e silenzioso.
Più che una casa, sembrava un convento. La madre usciva di casa alle cinque del mattino per recarsi al lavoro nel lontano e buio opificio e rientrava a casa solo a tarda sera.
La poetessa rimaneva sola in casa, dopo le ore trascorse a scuola. Trascorre così tutta la sua adolescenza. Come non accennare al primo giorno di scuola quando, chiamata a Motta Visconti, si avvicinò col cuore stretto e la testa alta alla sua prima cattedra, e a quei rumorosi ragazzi, laceri, sporchi, disordinati nel vestire, nel gesto, nella voce, che quasi quasi non si accorsero della sua entrata nell’aula, accolta da uno schiamazzo generale di ben 109 alunni?
E a tutti i suoi tentativi per intimorirli col rigore, per attrarli a sé con la dolcezza, per destare la loro attenzione e simpatia, alla prima note insonne dopo il primo impatto con quella realtà così tumultuosa, cruda e diversa dal silenzio del suo angolo di casa sua?
E come non parlare loro della sua intima soddisfazione nel vedere, solo dopo una settimana, i visi freschi dei suoi scolari, che, al suo ingresso nell’aula, le sorridevano, come per infonderle coraggio?
E della sua dedizione allo studio dell’ambiente in cui quei poveri ragazzi vivevano, immersi nella miseria e nell’abbandono?
Come non descrivere loro il luogo dove questa educatrice, autrice di “Fatalità”: due gradini di mattoni rotti e un uscio screpolato che apre la scuola, la quale si raggiunge attraversando un vasto cortile fangoso, su cui s’aprivano le stalle e dove guazzavano le oche?
Ecco un esempio da imitare: un’educatrice fisicamente esile, una coraggiosa, altera della sua virtù e del suo ingegno e che, pur tra tante difficoltà e delusioni, ha saputo trovare la sua strada e il suoi metodo di maestra del popolo nella conquista pacifica dei cento e più suoi allievi.
Nel lasciare questi giovani che ho preso per mano in questi sei anni di permanenza nell’Istituto Magistrale, guidandoli verso l’approccio verso la scuola viva, ripeto col Poeta: “Messo t’ho innanzi. Or per te ti ciba.

 


Occasione dei festeggiamenti del I° centenario dell'Unità d'Italia [Archivio famiglia Gizzi].


I tre giorni del sud 14-10-1961 [Archivio famiglia Gizzi].


1960 - La tecnica entra nella scuola [Archivio famiglia Gizzi].


Scolaresca guglionesi [Archivio famiglia Gizzi].


Scolaresca guglionesi [Archivio famiglia Gizzi].

[Continua con prossima pubblicazione su Fuoriportaweb]


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