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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 22/2/2010 ● Click 1384

La corruzione è “connaturata” alla società italiana?


Pietro Di Tomaso © FUORI PORTA WEB

Dal recente editoriale di Galli della Loggia sul Corriere della Sera mi sembra di capire che corriamo il rischio di restare impantanati nella corruzione – che secondo la Corte dei Conti è aumentata del 229 per cento – per effetto di un destino implacabile per cui “rimarremo sempre quello che siamo, una società malandrina, spietata e al tempo stesso accomodante, un Paese sostanzialmente senza legge e senza verità”.
Personalmente non condivido la tesi secondo la quale l’etica pubblica dipenda da un tratto antropologico degli italiani. Vero è che la corruzione trova terreno fertile in un sistema oligarchico, chiuso, senza ricambio di classi dirigenti. Il degrado aumenta in maniera esponenziale quando i controllori coincidono con i controllati, quando ci sono spaventosi conflitti d’interesse, quando l’appartenere ad una cordata fa premio sulla competenza e sull’etica della responsabilità.
E’ parimenti vero, come ricorda lo storico Lucio Villari nel suo saggio sul Risorgimento, quel che il Times di Londra scriveva dopo il 1870: “Troppo velocemente e con troppa facilità fu fatta l’Italia” (nel senso che l’idea d’Italia come comunità ancora doveva essere creata e che ancora mancava un tessuto sociale permeato di virtù civili).
Ciò detto e concentrandoci sulla situazione di diffusa corruzione che occupa la nostra scena pubblica, come se ne esce? Io non credo che lo stato di degrado nasca dal basso della società italiana. Sono dell’opinione, invece, che essa scenda dall’alto verso il basso. Cioè il cattivo esempio che parte dall’alto incoraggia chi sta in basso a delinquere ignorando principi e normative. Se, in nome della cosiddetta ‘politica del fare’, si diffonde immoralità all’insegna dell’arricchimento sfrenato e si incita a odiare i giudici che quell’accumulo di ricchezza lo vorrebbero legale (cioè nel rispetto della normativa vigente: vedasi il problema della scarsa trasparenza degli appalti pubblici), non si raggiunge l’obiettivo volto ad affermare nella società le virtù civili. Certo, il governo di centrosinistra non è affatto esente da critiche. Non legiferò per abolire il conflitto di interessi, in ciò sbagliando clamorosamente e purtroppo, nel frattempo, la società italiana ha interiorizzato molte delle patologie del berlusconismo. No, dunque, a poteri assoluti. La democrazia è un insieme di poteri che si frenano l’un l’altro affinché nessuno commetta abusi. Si elimini lo ‘spoil system’ per giungere alla auspicata neutralità dei pubblici funzionari. Si vietino le cariche pubbliche a vita per facilitare il ricambio delle classi dirigenti. Si riformi gran parte della struttura sociale (privilegi di nascita, discriminazione delle donne, cariche assegnate per cooptazione, deputati e senatori non eletti ma designati dalle segreterie, trionfo del demerito, lotta alla cultura dell’illegalità, ministri per meriti speciali, precariato a vita per molti giovani e non solo, e via elencando).
Naturalmente la ‘cultura critica’ potrà essere di aiuto per riplasmare il Paese, tenuto conto del fatto che si sente l’esigenza di trasferire nuove riflessioni etiche e filosofiche nella pratica politica in modo da comprendere e affrontare i problemi correnti. Le difficoltà, tuttavia, non mancano.
“Oggi l’elemento che più paralizza il ceto intellettuale nel suo virtuale ruolo critico dirigente è la prepotenza del sistema mediatico, intimamente appiccicato al sistema politico. Solo in apparenza infatti il sistema mediatico esercita la sua funzione critica. In realtà cementa insieme la classe politica esistente” (…) “In televisione non si scambiano argomenti in grado di convincere. Ci si insulta. E’ sconcertante, ma è così”. (…) “La scissione, il sistematico mancato incontro tra l’energia propositiva intellettuale e l’energia realizzatrice politica è la scoperta più sconfortante degli ultimi anni”. (Gian Enrico Rusconi, docente presso l’Università di Torino).
In queste condizioni, c’è il fondato rischio che possa aumentare l’area della cosiddetta “antipolitica” (un atteggiamento di totale rifiuto e disaffezione della politica) che occupa attualmente il 23 per cento circa dello spazio politico. Sono cittadini che rispetto alle tradizionali categorie di destra, di centro e di sinistra, rifiutano assolutamente di definirsi. Non si sentono vicini a nessuna forza politica. Non hanno fiducia nelle istituzioni e rispetto ai problemi del Paese pensano che sia tutto inutile, perché la casta dei politici non sarà mai in grado di fare qualcosa


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