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Pubblicato in data 4/4/2012 ● Click 1315

Nella luce della "Risurrezione": un percorso biblico che conduce alla Pasqua


Diocesi Termoli-Larino © FUORI PORTA WEB

Settimana Santa, le riflessioni bibliche e sociali. A cura di don Giuseppe De Virgilio, studioso di Sacra Scrittura e docente presso il Seminario regionale abruzzese-molisano di Chieti e della Pontificia Università Santa Croce di Roma.

In un importante oracolo Osea invita il popolo alla conversione mediante un’immagine che allude all’idea della risurrezione: «Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare
e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2). Con espressioni simili Isaia annuncia la futura salvezza del popolo: «Di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno
quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre» (Is 26,19). Considerando le forme del linguaggio profetico comprendiamo che il pensiero sulla «risurrezione» nasce originariamente come risposta all’enigma della «morte». Che avverrà dopo la nostra morte? Quale destino avrà in sorte l’uomo? Giusti ed empi sono accomunati dalla medesima sorte? Secondo la tradizione sapienziale la speranza dei giusti si basa sulla convinzione che neppure la morte interrompe la profonda comunione di vita con il Signore (cf. Sal 16,23; 49,16; 73,23-24). Fermiamo la nostra attenzione su alcuni segni che tematizzano il passaggio dalla morte a una nuova vita nell’Antico Testamento, per poi focalizzare il senso cristiano del «vivere da risorti».

Il figlio della vedova

Un primo episodio è ripetuto in modo simile nei cicli di Elia ed Eliseo: un miracolo di risurrezione di due bambini. Il messaggio dei due racconti testimonia come la fede in Jhwh porta alla vita e alla salvezza degli innocenti. Nel caso di Elia il prodigio della guarigione del figlio della vedova di Sarepta di Sidone è collegato all’opera della provvidenza divina. Nella sua povertà la donna accoglie il profeta e pone tutta la sua fiducia in Dio. L’esperienza improvvisa della malattia del suo bambino permette a Elia di ricambiare il dono dell’ospitalità con la guarigione del piccolo. Il profeta si distende per tre volte sul piccolo e invocando il Signore ottiene il «ritorno della vita» nel corpo del bambino (cf. 1Re 17,17-24). Similmente Eliseo è spinto a recarsi presso la casa di una donna Sunammita che lo aveva ospitato. Il miracolo della risurrezione del bambino morto è interpretato come l’azione benefica di Dio nei riguardi dei giusti (cf. 2Re 4,31-37). Il Dio dei viventi interviene nella storia umana per guarire dalle infermità e ma per salvare dalla morte.

La valle delle ossa aride

Una delle più impressionanti immagini apocalittiche della risurrezione è rappresentata dalla visione della «valle di ossa aride» in Ez 37,1-14. La narrazione allude al ritorno degli esiliati nella terra promessa dopo la tragedia della distruzione del Regno e dell’esilio in Babilonia. L’immagine non riguarda una singola persona, ma un intero popolo. Il profeta viene condotto dallo Spirito in una pianura piena di ossa: la scena è drammatica nella sua desolazione. La morte regna in quel luogo e una sterminata quantità di cadaveri giacciono inanimati. Chi potrà riportarli in vita? Ezechiele si pone in ascolto di Dio che lo invita a sperare in un futuro positivo. Egli è chiamato a profetizzare: «Così dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete. Saprete che io sono il Signore» (Ez 37,5-6). In tal modo l’azione dello Spirito penetra nei cadaveri e misteriosamente trasforma le ossa aride in persone viventi. E’ il segno del popolo che risorge dal sepolcro e rivive il ritorno nella terra promessa come un nuovo esodo (Ez 37,12).

Giona e il simbolo della balena

Un ulteriore segno che preannunzia la risurrezione è costituito dall’esperienza del profeta Giona. Il libro si apre con l’incarico di Dio al profeta di andare a Ninive la grande città per proclamare il giudizio divino e la conversione (Gio 1,1-2). Giona non solo oppone una resistenza spirituale, ma fugge dall’ordine divino prendendo la direzione opposta. Dio interviene nella vicenda del profeta e la fuga di Giona infelice imbarcato su una nave per Tarsis diventa una «discesa nella morte». Mentre la nave sta portando Giona lontano da Dio, nel mare si scatena una tempesta. La nave è sul punto di naufragare. Giona comprende di non avere più scampo e chiede di essere gettato in mare. Mentre il profeta è risucchiato nel cuore dell’abisso Dio ordina al grande pesce (una balena) di «custodirlo nel ventre dello Sheol». Il profeta trascorre tre giorni e tre notti nel ventre della balena e in quel luogo di morte il profeta contestatore canta la misericordia di Dio (cf. Gio 2). Il racconto riferisce che Dio comanda al pesce di rigettare Giona all’asciutto. Ritornato alla vita il profeta può eseguire la sua missione a Ninive ed annunciare la salvezza di Dio. La risonanza della vicenda di Giona e del suo insegnamento è attestata sia nel contesto anticotestamentario (cf. 2Re 14,25) che in quello evangelico. La storia parabolica del profeta viene riletta da Gesù nella prospettiva del compimento pasquale (cf. Mt 12,38-42): Giona è un «segno» che anticipa l’evento della risurrezione di Cristo.

I fratelli Maccabei con la loro madre (2Mac 7)

Il motivo della risurrezione come speranza nella vita eterna emerge soprattutto negli ultimi libri del canone ebraico: Daniele, 1-2Maccabei e Sapienza. Il celebre racconto di 2Mac 7, con un marcato tono didattico, offre un prezioso insegnamento sulla risurrezione attraverso la testimonianza di un’intera famiglia che obbedisce alla Legge di Dio ed viene perseguitata dal potere umano. I sette fratelli Maccabei affrontano la morte pronunciando la confessione di fede nel Signore «re dei re» (2Mac 7,9) e divenendo testimoni della comune fede dei giusti di Israele. E’ importante sottolineare come il primo giovane, facendosi interprete degli altri, richiama la fedeltà alle «leggi dei padri» e per essa dona la propria vita (2Mac 7,2). Tutti gli altri fratelli insieme alla loro madre, vedendolo spirare in quel modo, si preparano a subire la stessa sorte confidando nelle parole di Dt 32,36: «Il Signore renderà giustizia al suo popolo e si muoverà a compassione dei suoi servi» (2Mac 7,6). Essi mostrano come l’obbedienza alla Torah conduce alla vita e che la morte non potrà impedire la giusta ricompensa di Dio. In questo contesto si inserisce l’idea di risorgere/risurrezione che ricorre in funzione della giustizia retributiva divina (cf. anche 2Mac 3,28; 4,42; 5,10; 8,34-35; 13,8).

La sapienza e la speranza nell’immortalità

E’ soprattutto nel libro della Sapienza che il motivo della morte dei giusti si collega con l’idea escatologica dell’immortalità e della «risurrezione dei corpi». Il libro si apre con l’esortazione a seguire la sapienza e la giustizia che prepara l’affermazione sul progetto di Dio e sul destino di «immortalità». Il progetto di Dio non prevede la morte. Questa è il risultato della malvagità umana, perchè Dio «ha creato l’uomo per l’incorruttibilità» (Sap 2,23), cioè dotato della capacità vitale e costituito del desiderio di vivere per sempre nella sua amicizia. In Sap 1,12-15 si esclude che il male possa essere attribuibile a una realtà sovrumana: gli inferi (in greco: Ade) non hanno alcun potere sulla terra. Per la prima volta qui si introduce l’idea degli «inferi» non più associata allo sheol ebraico (il comune soggiorno dei morti), ma alla condizione di punizione eterna riservata ai malvagi. L’origine della morte viene spiegata in Sap 2,23-24 a causa dell’invidia del «diavolo». La condizione per la vita eterna con Dio è la giustizia. Essa è resa possibile all’uomo soltanto mediante il dono della «sapienza». La sapienza fa conoscere la volontà di Dio (Sap 9,13.17) e permette al credente di realizzare ciò che piace al Signore (Sap 7,27-28). Attraverso una vita giusta si ottiene l’immortalità beata (Sap 6,17-19). Di conseguenza «il desiderio di sapienza» conduce al regno (Sap 6,20), ad una vita di comunione e di preghiera con Dio (cf. Sap 9).

Chi crede in me, anche se muore, vivrà

Le prospettive evidenziate nei segni dell’Antico Testamento vengono riprese e rielaborate nel Nuovo Testamento, il cui centro è rappresentato dalla persona e dalla missione di Gesù di Nazaret. Occorre sottolineare che la novità della predicazione di Gesù nel quadro dell’ambiente giudaico del tempo. Egli annuncia la differenza tra il corpo terrestre e l’anima celeste, affermando: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima, abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo» (Mt 10,28). «Salvare la vita» nel senso escatologico significa considerare la morte come un passaggio ad una vita nuova: questo può avvenire solo mediante l’evento della risurrezione. La successiva disputa dottrinale con il gruppo dei sadducei sul tema della «risurrezione» (Mc 12,18-27) conferma la realta della vita oltre la morte, ammettendo che la singolare condizione delle anime che «non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli» (Mc 12,25). Il messaggio evangelico viene ulteriormente confermato dal’atteggiamento di Gesù stesso di fronte alla morte. La risurrezione della figlia di Giairo, del figlio della vedona di Nain e di Lazzaro di Betania reappresentatno segni della rivelazione del Signore: «Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11,25-26).

Il buon pastore dà la propria vita

Una similitudine altamente espressiva è rappresentata dal «buon pastore» che sceglie di donare la vita per il suo gregge (Gv 10,1-18). In questa prospettiva possiamo considerare l’atteggiamento di Gesù di fronte alla sua morte, preannunciato nel corso della sua missione (cf. Mc 8,31-32; 9,31; 10,32-34 parr.; 9,9; Mc 12,2-12). Gli evangelisti evidenziano la consapevolezza e l’abbandono fiducioso di Gesù di fronte alla previsione della sua morte cruenta. Non sarebbe possibile interpretare la missione salvifica del Cristo se non nel «dono» della sua persona in vista della risurrezione. In questa prospettiva si stabilisce una relazione stretta tra la dimensione «terrena» e quella «celeste», tra la realtà «storica» dell’esistenza segnata dal limite della morte e quella ultraterrena della «vita oltre la morte». Le parole e i segni che accompagnano la dinamica oblativa di Cristo confermano tale prospettiva: la morte di Cristo nella sua tragicità è da intendersi come culmine della nuova ed eterna alleanza e come inizio di una «vita che vince» andando oltre i limiti umani. La similitudine del «buon pastore» diventa un segno per esercitare pienamente la responsabilità personale e comunitaria mediante la speranza della risurrezione finale.

Vivere da risorti: l’incontro del giardino

Un ultimo segno su cui fermare la nostra attenzione è rappresentato dal «giardino» in cui avviene l’incontro tra il Risorto e Maria di Magdala (cf. Gv 20,11-18). Nell’episodio della donna davanti al sepolcro vuoto possiamo legger e alcuni tratti della dinamica cristiana. In primo luogo Maria è la donna «che cerca» quel Gesù che «ha amato i suoi fino alla fine» (Gv 13,1). Vivere da risorti significa «cercare Dio» nella storia e nelle persone che ci sono accanto. Un secondo tratto di Maria è dato dalla sua presenza e dall’attesa di un incontro. La Maddalena sceglie di «stare» nel giardino, di fronte a quel sepolcro, Ella è disposta a cercare il cadavere del suo Signore e a non staccarsi più da Lui. Domina in questa attesa ancora l’idea della morte, il rimpianto per un’occasione ormai irrimediabilmente perduta: Maria non deve ancora fare l’incontro, il salto della fede pasquale nella risurrezione. Un terzo tratto è costituito dal pronunciamento del «nome» Maria (Gv 20,16) che ha dato senso all’attesa e ha riempito la solitudine di speranza. La voce di Gesù risorto vince in Maria ogni confusione: non è un fantasma, è il Signore e Maestro in persona che chiama. Vivere da risorti significa accogliere la chiamata di Dio in noi. Un ultimo tratto è rappresentato dalla risposta della Maddalena, espressa con parole e gesti. L’esultanza della donna non concede dubbi di fede: colui che la sta chiamando è davvero il suo Maestro vivo, l’Unico Signore crocifisso e risorto. Il «si» di Maria è stato preparato da lungo tempo: la sua ricerca, la condivisione del dolore e del distacco, l’attesa paziente dell’incontro hanno costituito delle precise tappe del cammino di fede: ora la donna può dire il suo «eccomi» a Gesù, senza riserve né timori. Alla donna nel pianto è affidata ora la splendida notizia della risurrezione di Cristo e della paternità di Dio che «ha risuscitato il proprio Figlio dai morti» (At 3,15). In un giardino Dio ha dato inizio alla vita dell’uomo nel mondo (cf. Gen 2) e in un altro giardino il Risorto dà inizio alla «nuova vita».

Giuseppe De Virgilio


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