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CulturaGuglionesi
Pubblicato in data 17/5/2014 ● Click 1682

Il bene del teatro


Mario Vaccaro © FUORI PORTA WEB

Le dichiarazioni di Albertazzi nell'interessante articolo pubblicato in "Solitudini d'autore" - e ribadite brevemente nel corso dell'intervista da Fazio - sono senz'altro da sottoscrivere. C'è tuttavia una nota stonata, che desidererei ascoltiate ... vado a riprodurla. Queste doglianze, espresse in una forma ben più caustica, tipica del suo stile, le esternava qualche lustro fa Carmelo Bene. E fin qui chissenefrega, direte. Ok, so che l'interesse per il teatro scema, scemi noi ad aver smarrito il senso della sua importanza. Ma avendo avuto fin dall'adolescenza il privilegio d'essere spettatore di questa "accresciuta realtà" ("teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male" Eduardo), in casa mia per giunta, credo doveroso dedicare una frazione delle mie possibilità per tributarle, appunto, l'emerita importanza. Tornando alla stonatura, Bene non si limitò alla denuncia ma fornì un supporto teorico a quanto asseriva, un'esposizione organica in cui dava conto d'ogni singolo aspetto che riguardasse la sua idea di teatro. Ebbe più volte modo d'illustrare - lo ricordo ospite di Bagnasco in Mixer Cultura e di Costanzo in due distinti "Uno contro tutti", che potete trovare su Youtube - quale fosse la sua idea di teatro, frutto di un'esistenza spesa davvero per seguire questa sua passione: da qui la repulsione verso la critica, parte dell'aspetto istituzionale del teatro, odiata anche perché composta da parvenus, spesso critici letterari prestati ad un mondo che non conoscevano affatto.

Il teatro coitale-amministrativo cui allude A. è, secondo le categorie beniane, il teatro di rappresentazione. Altrove ho già avuto modo di far cenno ad uno dei rari limiti della nostra lingua, che assegna all'attore il compito di recitare, ovvero di citare nuovamente un testo a cui, dunque, mostrarsi più o meno fedeli. Siamo nei confini della mera rappresentazione, appunto, come in occasione delle feste paesane o della Via Crucis, non c'è nulla dell'evocativo che il teatro dovrebbe inscenare. In altre lingue l'attore "gioca con" il testo (non si confonda il gioco con lo scherzo, cosa serissima l'uno e infantile l'altro). E difatti CB non utilizzava il testo a monte ma la scrittura di scena, una reinterpretazione del testo originale ad uso e consumo dell'agere della macchina attoriale (protagonista assoluto della scena, non dipendente dai testi, egli "agisce" in un tempo non cronologico, ma nell'aion degli Stoici, una sorta di dilatazione/sospensione del presente, in cui l'azione si perde nell'atto. Operando una brutale semplificazione, Bruto e Cassio uccidono Cesare: il perché, il come e ogni altro particolare dell'azione si disperde in mille rivoli - nell'eterno divenire chi può dirsi pienamente autore delle proprie azioni? - mentre, monumentale, resta l'atto. A me sembra esservi un'affinità con la foto: un istante che sottraiamo al decorso del tempo e che, pur apparendoci statica, ci racconta qualcosa del prima e del dopo). Solo così è possibile mettere in scena un teatro del dire, anziché del già detto.

La complessità del supporto teorico a fondamento del suo teatro, come potete intuire, è tale che non v'è spazio né la presunzione necessaria per poterla qui rappresentare. L'unica cosa che mi è consentito fare in queste poche righe è dare un ritratto, mediante poche brevi pennellate, d'uno di quei rari intellettuali artefici di se stessi, rifuggendo egli da categorie e tentativi di classificazione: non a caso è stato inserito tra i Classici Bompiani quand'era ancora in vita e in Francia, accomunato nell'identica sorte al fior fiore dei nostri intellettuali bistrattati in patria, è stato oggetto di indagine (intellettuale) dai vari Deleuze, Klossowski ... La sua speculazione intellettuale ha investito vari campi della cultura ... letteratura, filosofia, filologia, musica, pittura, cinema, dimostrando d'essere un onnivoro fruitore ma anche di possedere un eclettico talento, sempre innovando, in qualsiasi campo abbia applicato il suo talento. La radicalita' del suo pensiero trova pochi uguali. Pur con evidente approssimazione, CB è stato per il teatro quel che Nietzsche ha rappresentato in filosofia, o in letteratura Joyce col suo "Ulisse". Suo precursore, solo teorico dacché non ha avuto modo di mettere in scena le sue idee, Artaud (che Albertazzi, aggettivando, inserisce nel teatro della masturbazione ... ahi ahi!), a sua volta ispirato dal teatro orientale, in particolare quello balinese. Come agli albori in Occidente - A. cita l'orfismo nella tipologia teatro dell'orgia, dell'eros - quello orientale è un teatro evocativo, in cui al testo, se c'è, è riconosciuta la stessa importanza delle luci o d'un singolo elemento della scenografia, della danza, della vocalità. Sebbene tristemente occidentalizzato, anche il Giappone ha conservato le prerogative del teatro Kabuki e del No.

Tralasciando per un momento le teorizzazioni, mi riservo poche righe per descrivere la suggestione che il teatro, non sempre per l'appunto, mi ha regalato. Si spengono le luci e si apre il sipario ... la quarta parete: da un altrove, un non-luogo, qualcuno-qualcosa mi parla, mediante un linguaggio evocativo, che non fa uso di parole ma di strumenti comunicativi per i quali non occorre la mediazione della mente ... parlano all'inconscio, la parte di noi che non conosciamo e su cui il grande teatro apre il sipario. E' un'esperienza vissuta grazie, ad esempio, ad "Aspettando Godot", a non mi ricordo quale pièce di Mishima e, ovvio a questo punto, all'Amleto di CB (pervertito in Laforgue, amava dire): ricordo l'uso dell'amplificazione tale da non rendere distinguibili le parole, eppure i virtuosismi della timbrica erano chiavi d'accesso per una diversa comprensione. Un teatro di rappresentazione, che replichi la realtà ordinaria, a cosa serve? Ad intrattenere? Pettegolezzi e barzellette già lo fanno. Ascoltare, da una viva voce impostata, il pressoché identico testo d'un classico, più che teatro è un audiobook supportato dal video in tempo reale.

A. auspica il ritorno al teatro dell'eros, orfico, orgiastico (ed elogia il Living Theatre ma non cita Bene, arihaihaihai!). Su questo punto CB ha delle precisazioni da fare (ché, se non si fosse ancora capito, non è il sottoscritto a muovere appunti verso A. - e si guarderebbe bene dal farlo - essendo invece un mero strumento dell'indagine intellettuale d'un genio ancora vitale). L'eros rientra nello squallido meccanismo che coinvolge il desiderio, dunque l'io. L'orfismo proruppe nell'ambiente religioso-culturale greco portando la rivelazione dell'esistenza d'un io più antico (varie versioni della mitologia raccontano di Dioniso fatto a pezzi dai Titani ecc...), immortale dunque divino: l'anima. Già ho avuto modo di riferire della nascita del teatro proprio dalla matrice del culto dionisiaco. Dunque è all'anima che il teatro deve rivolgersi e, per farlo, occorre che utilizzi strumenti diversi da quelli convenzionali, idonei per l'io-corpo - o io-terreno. CB metteva in scena l'altrove, l'o-sceno, ciò che dimorava fuori dalla scena perché estraneo alla logica del senso (che forse la vita è comprensibile?) delle parole da inseguire*, dei desideri dell'io da realizzare** (a me fa venire in mente il Cristo di "non sono venuto a portare la pace, ma la guerra", parole evocanti un senso che dimora altrove). L'orfismo predicava il raggiungimento dell'estasi mistica, l'essere fuori di sé per dialogare con la parte divina, così nel teatro si chiede allo spettatore di abbandonarsi, di assistere ad un qualcosa che non sarà in grado di raccontare. Ma non è un teatro dell'eros, caro A., ma del porno (da non confondere con la pornografia), che è il superamento del desiderio, dunque dell'io: è la voglia della voglia, cioè non di un soggetto ma d'un soggetto che si perde nell'oggetto.

Lo so, gioverebbe ad una maggiore comprensione il possesso di preventive nozioni di filosofia. I tre assiomi di Gorgia, ad esempio: 1) Nulla esiste 2) Ammesso che qualcosa esista non potremo mai conoscerlo 3) Ammettendo d'essere in grado di conoscerlo, non avremmo possibilità di comunicarlo. Aiuterebbero anche le considerazioni di Wittgenstein sul rapporto di isomorfismo (struttura corrispondente) tra realtà, pensiero e linguaggio. Termini astrusi tralasciando, il ragionamento-base è intuitivo: nonostante l'immane sforzo - e a dispetto della corrispondenza tra le strutture - la nostra mente non riuscirà mai a catturare l'intera realtà codificandola in pensieri, ma una mera porzione di essa; ad un risultato ancor più misero giunge il linguaggio, che riesce a codificare solo una parte dell'attività della nostra mente. La scollatura tra linguaggio-pensiero-realtà, l'inadeguatezza delle parole, ci consentono di poter affermare che non parliamo ma siamo parlati, il potere che la parola ha su di noi è maggiore di quello che noi esercitiamo su di essa. La stessa cultura riveste una funzione di potere sulle menti, che da essa vengono colonizzate (la radice è comune), e che la stessa deve con-vincere. Dunque, per comunicare porzioni di realtà non catturate dal linguaggio bisogna servirsi di altri canali o dello stesso linguaggio ma evadendo dalla logica della comprensione: "non so spiegarlo, quindi scrivo una poesia", disse una volta qualcuno.

Provocazioni a parte, il pensiero di questo gigante va inteso quale monito per evitare le trappole che alle nostre menti noi stessi tendiamo. In campo teatrale, pur non essendoci dei CB, qualche seme pare abbia attecchito: Timi lo vede come un maestro, Rezza s'ispira ad Artaud quindi ..., il compianto Demetrio Stratos condusse studi sulla voce simili al Maestro (aventi sempre Artaud quale primigenio ispiratore). Fa piacere ascoltare un A. sulla stessa lunghezza d'onda del Genio, tirandosi fuori, a 90 oltrepassati, dalla miseria di quel teatro amministrativo di cui, a detta di Bene, era lui stesso sommo rappresentante: con l'irriverenza che era solito praticare, nel corso di un'intervista dichiarò d'aver chiamato i suoi due cani, appunto, Albertazzi.
Dall'insieme di parole che sopra ho cucito vengon fuori concetti astrusi, di difficile comprensione, è indubbio. Che il percorso della fede non ci pone forse di fronte a similari astrusità, in cui spesso la logica non c'è d'aiuto ("in teologia si danno solo domande")? E il teatro, ribadisco, nasce dai riti religiosi antichi: alle cerimonie con un unico officiante ed il coro si aggiunge l'attore (ypocrites=spiegare cosa c'è sotto) ovvero la dialettica (già, quel dialogo che è componente dei rapporti interpersonali e che oggi diamo per scontato è un'acquisizione culturale relativamente recente). Tornando ad evidenziare le affinità, motivi analoghi a quelli per cui si va in chiesa dovrebbero spingerci a frequentare il teatro; anzi, ancor prima di sperare di udire una voce divina e rivolgerci al cielo, occorrerebbe indagare noi stessi, tentare di comprendere chi siamo, prestare ascolto a quelle voci che quotidianamente ci parlano (ad esempio, mi appresto ad inviare questo scritto ma nonsochi mi dice "lascia perdere, non interessa a nessuno, ti prenderanno per un saccente saputello che chissà cosa vuole dimostrare"; quella voce che ci contraddice a prescindere da qualsivoglia decisione stiamo per prendere, sapete voi spiegarmi, per favore, chi è?). Chissà, magari un giorno metteremo a frutto l'intuizione d'aver sprecato tempo a cercare altrove quel che già dimorava entro le nostre stesse mura.

*Non domandarmi la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" (Montale, da "Non chiederci la parola")
**Il desiderio è come una fiamma che brilla, e ciò che ha toccato non è che cenere, - polvere leggera che un po' di vento disperde - pensiamo dunque soltanto alle cose eterne.
(Calderon, da "La vita è sogno")


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