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		12/10/2016 ● Guglionesani
"Personaggi guglionesani": Mario Sorella (I. M. I.), una scelta di coscienza
  Antonio Sisto ● 4590 
        
        Mario Sorella, per gli amici, Manduccio, è nato a Guglionesi il 4 novembre 
1923, dove risiede in via Capitano Verri 1. In pochi conoscono la sua storia di 
giovane soldato internato nei campi di concentramento di Germania e Polonia, 
durante la seconda guerra mondiale. Lui e Antonio Sorella sono gli unici 
sopravvissuti guglionesani ancora viventi. Manduccio e Antonio facevano parte 
degli I.M.I. (Internati Militari Italiani), non erano prigionieri di guerra. 
Purtroppo, ancora oggi, quella degli I.M.I. è una pagina di storia poco nota e 
chiara. Dopo l’8 settembre 1943, data dell’armistizio con gli alleati, catturati 
dai tedeschi, Manduccio e Antonio, si sono rifiutati di combattere in favore 
della Germania e hanno scelto volontariamente e consapevolmente la dura 
prigionia nei lager nazisti piuttosto che giurare fedeltĂ  a Hitler e Mussolini. 
La presenza e il saluto di Manduccio sul palco del Teatro Fulvio di Guglionesi 
il 6 OTTOBRE 2016 in occasione della presentazione del libro Volontario di 
Coscienza del tenente Giuseppe Lidio Lalli, ex internato di Bonefro, hanno 
commosso i tantissimi spettatori presenti. Specialmente i giovani studenti che, 
l’hanno ascoltato con attenzione, gli hanno dedicato un lungo applauso. Antonio 
non è stato presente per acciacchi dovuti al cambio di stagione, ma idealmente 
anche lui è stato con noi ed è stato ricordato e salutato.
“Era il 6 di gennaio del 1943 quando fui chiamato alle armi. Lavoravo nella 
campagna dei miei genitori, duramente, dalla mattina alla sera. Da Guglionesi 
partimmo in due, Antonio Sorella ed io. Anche se avevamo lo stesso cognome, non 
eravamo parenti. Ci assegnarono alla Brigata Garibaldi di stanza a Perugia. Dopo 
un mese d’addestramento c’inviarono al fronte, destinazione Jugoslavia. Compiuto 
un breve tirocinio, ci mandarono al Battaglione come rinforzo. Facevamo ordine 
pubblico e vigilanza armata. Il nostro compito principale era il controllo del 
territorio, un’attività molto pericolosa. Dovevamo contrastare i ribelli che 
vedevano in noi dei nemici perché ci consideravano invasori. Dopo l’armistizio 
dell’8 settembre ci trovavamo in servizio a Lubiana e, dal nostro comandante, 
fummo lasciati liberi di decidere cosa fare del nostro destino. C’era un caos 
indescrivibile e poiché eravamo ragazzini di vent’anni senza nessuna esperienza 
e lontani dalla nostra patria, non sapevamo né cosa fare e tantomeno quello che 
piĂą era buono per noi. Eravamo tutti come pecore senza pecoraio. Non avevamo 
nessuna guida e ogni decisione poteva rivelarsi controproducente. Le prospettive 
erano due: andare verso la montagna, dove c’erano i partigiani, oppure tentare 
di ritornare in Italia attraverso la linea adriatica. Antonio ed io decidemmo di 
provare a ritornare a casa, verso la via del mare. Purtroppo, arrivati vicino a 
Trieste, la nostra avventura terminò. Fummo fatti prigionieri dai soldati 
tedeschi. Ci chiesero subito da che parte volevamo stare. Noi non aderimmo a 
passare con loro e, fummo deportati in Germania a Meppen. Dopo circa un mese ci 
spostarono allo Stalag di Hilden, vicino a Dusseldorf. Ci misero a lavorare in 
una fabbrica che produceva bombe, fucili e carri armati. Ricordo che ci 
trattavano come bestie e c’era tanto freddo che, nemmeno la nostra gioventù, 
riusciva a sopportare. La fame era tanta, non ci passavano quasi niente da 
mangiare, solo tre patate al giorno e, un filone di pane lo dovevamo dividere in 
cinque e, farcelo bastare per tutta la giornata. A nostro rischio e pericolo 
dovevamo inventarci sempre qualcosa di nuovo per cercare di sopravvivere. Dietro 
la tuta da lavoro avevamo stampato una grossa lettera I, che identificava la 
nazionalitĂ  dei prigionieri, nel mio caso, Italiano. Alla fine del 1944 fui 
mandato in Polonia, all’”Arbeit front”. Antonio restò a Meppen e, non ho avuto, 
mai, sue notizie. Vigilati dai soldati tedeschi, ci facevano costruire gallerie 
e trincee. Solo Dio sa quante volte ho creduto di morire. A febbraio ci 
riportarono in Germania in un campo che non ricordo il nome. Il 15 aprile del 
1945 finalmente ci fu la liberazione da parte dei soldati americani, non mi 
sembrava vero. La prima cosa che fecero fu quella di spidocchiarci e di 
rifocillarci a dovere. Eravamo passati, dal nulla alle scatolette piene di ogni 
ben di Dio. Grandi pezzi di formaggio, cioccolate e altre cose che non avevo mai 
visto prima. Non bastò una settimana ad abituarmi alla nuova dieta. Dopo varie 
peripezie, con mezzi di fortuna e su un treno scoperto, il 15 agosto del 1945 
arrivai a Guglionesi. Ero talmente provato che ho impiegato anni a riprendermi e 
tornare alla vita normale. Quelle scene umilianti, ancora oggi, sono ben vive 
nella mia mente. In seguito fui chiamato a Campobasso, dove fui decorato con una 
croce di guerra, una medaglia e novemila lire. Da Guglionesi siamo partiti in 
tanti per la guerra, molti siamo stati fatti prigionieri e rinchiusi nei vari 
campi di concentramento di Albania, Grecia, Russia, Jugoslavia etc... non tutti 
hanno avuto la fortuna di tornare a casa. A loro vanno il mio ricordo e il mio 
saluto. Non finirò mai di ringraziare il Signore che mi ha dato la forza di 
sopravvivere e di poter raccontare queste storie. Al paese ho ritrovato Antonio 
e abbiamo festeggiato il nostro incontro con un buon bicchiere di vino paesano. 
Ora, so che vive a Sa Giacomo degli Schiavoni e ha buona salute. A Guglionesi, 
di quelli che hanno fatto la seconda guerra mondiale, sono rimasto solo io, non 
so se tra quelli emigrati ci sia ancora qualcuno vivo”.

Mario Sorella
