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		31/10/2016 ● Cultura
"Funere Mersit Acerbo": la nuova democrazia guglionesana dei luoghi di rito...
 Arcangelo Pretore ● 1657
  Arcangelo Pretore ● 1657 
        
        [FUNERE MERSIT ACERBO: la nuova democrazia  guglionesana dei luoghi di rito che  accompagnano i defunti]
Non si è mai pronti, per morire ( e non aiutano molto i fuorvianti eufemismi 
dell’ †è venuto a mancareâ€â€¦â€ è tornato alla casa del Padre…†ecc.) ciò, 
nonostante la confortante preparazione avvolgente , mitigante , accompagnatrice 
, che spesso si snoda lungo tutta una vita, con cui la religione sacralizza 
l’accadimento (qui il sacro, al fine di individuare ed imparare a riconoscere i 
luoghi che lo caratterizzano , viene dato nel senso inteso da Mircea Eliade, 
ovvero come quell’aura speciale degna di considerazione, rispetto e devozione 
circoscritta all’interno e nell’immediato intorno dei luoghi di 
cultoâ€consacratiâ€: ambiti di ieratica sontuosa solennità facilmente 
riconoscibili rispetto alla vastità laicizzata dei territori che li accolgono , 
poiché verosimilmente in quei luoghi, l’ovvia materialità delle cose : altari , 
croci lignee , statue, icone … si sacralizzano trascendendo la scontata , 
persistente presenza della stessa materia di cui sono costituite quando altrove 
danno forma e sostanza sia ad opere d’arte che ad altri oggetti d’uso comune) . 
Siamo soli , di fronte all’unico irreversibile evento certo che in quanto 
viventi ci appartiene e ci distingue dagli altri animali per l’esatta coscienza 
che abbiamo oggi del suo prodursi a venire nel corpo e nel suo doloroso 
esternarsi agli altri , investendo dell’evento la famiglia , le famiglie 
allargate del defunto , un paese un territorio e, talvolta perfino ,una nazione 
a seconda del “peso “sociale, culturale del defunto ( è vera in parte la 
constatazione , di per sé oggettiva, che le morti nella loro ineluttabilità sono 
tutte uguali , ma è altrettanto vero che la “morte socialeâ€di un individuo può 
avere tempi di estinzione nella memoria collettiva perfino millenaria . Al fine 
di supportare la veridicità dell’assunto si pensi all’assassinio di Cristo : un 
crudele fatto di sangue terreno , ben radicato nella nostra memoria di oggi , 
benché dalla crocifissione del Salvatore ad oggi siano trascorsi più di due 
millenni . Non solo siamo impreparati nell’affrontare la morte , ma preludendo 
la nostra , restiamo smarriti perfino nell’affrontare la morte altrui. Non era 
preparato ad accettarla neppure Giosuè Carducci (nel 1906, primo italiano 
insignito del Premio Nobel per la letteratura ) colpito dal dolore per la 
repentina morte del suo caro “pargoletto†Dante avvenuta a soli tre anni . Non 
si rassegnava inel constatare l’ indifferenza della Morte di fronte alla 
tenerezza dell’età del figlio e al dispiacere struggente che la stessa gli 
avrebbe indotto , tanto da fargli mettere in versi il suo immenso sconforto per 
quel corpicino esanime che per lui era diventata una consustanziale parte di sé 
, del suo “carnale†futuro , ora destinato a marcire sottoterra, facendo , al 
ricordo, di nuovo sciogliere il poeta in un “Pianto antico†: Sei ne la terra 
fredda , Sei nella terra negra , Né il sol più ti rallegra , Né ti risveglia 
amor . Da un’altra poesia del Carducci , pure in memoria del figlioletto, ho 
tratto il titolo dell’articolo ( a sua volta mutuato da Virgilio) a suggello 
dell’evidenza del fatto che qualunque morte al di là dell’età del deceduto è 
sempre prematura . E, venendo alle nostre consuetudini paesane : è parte della 
nostra costruzione sociale locale , quando si ha notizia di una morte annunciata 
o di un lutto che si è già consumato , che i parenti, le famiglie parentali 
allargate, i compaesani , chiunque, anche del circondario abbia coltivato 
rapporti di amicizia ,fosse stato semplicemente un conoscente o fosse stato in 
affari con il defunto, con la sua famiglia… colpito dalla morte imminente del 
proprio caro , dell’amico, del conoscente , si senta in dovere di fargli visita 
, per porgergli un ultimo saluto di conforto , se ancora in vita , per 
manifestare personalmente anche ai parenti del morente i’ affetto ,la 
considerazione che gli aveva portato in vita . Al fine di meglio inquadrare la 
caratterizzazione sociale della morte rispetto ad altri eventi , si può 
osservare oggi, come accadeva in passato come le case private familiari 
difficilmente si aprivano oltre che ai parenti anche ad altri, conosciuti e 
sconosciuti . Non accadeva né in occasione delle nascite, di battesimi e , 
neppure nei matrimoni, pur connotando tali eventi tappe esistenziali importanti 
nella vita di un individuo , generalmente altalenanti tra sacro e profano . In 
occasione di una morte imminente di un decesso, invece, seguendo un’antica 
tradizione , coloro che sono motivati a farlo convengono a casa del morente o 
del defunto senza che da parte dei famigliari, con gratitudine accoglienti, vi 
sia alcun filtro o invito , spinti da quell’immediato istintivo “sentire†
collettivo di compartecipare il lutto, attivando la forte l’empatia dello stato 
d’animo prevalente nel visitatore nei confronti del morente o del defunto e 
della sua famiglia di appartenenza . Specie in passato (oggi, per una sorta di 
discrezione forse dovuta al prevalente individualismo dominante ,sempre meno,)il 
morente si andava a visitarlo in casa per manifestargli con la propria presenza 
l’affetto, la riconoscenza, la considerazione per l’esserci stato in quanto 
persona a questo mondo , ciascuno secondo le sue capacità ; per avere nel corso 
della sua vita almeno un po’ improntato di sé (se non per altro perché il 
defunto è stato per un tempo breve o lungo contemporaneo con il visitatore ), 
con la sua cultura pratica , teorica o comunicativa … che fosse, la comunità 
tutta . Una condizione quella del nostro vissuto con più efficacia esplicitata 
dal filosofo F. Savater â€nascendo portiamo nel mondo qualcosa che non c’è mai 
stato ,morendo ci portiamo via quello che non ci sarà mai più†
È una variegata composita compagine di persone , oggi sempre più attempata, 
quella che spontaneamente si aggrega in occasione delle esequie del defunto , 
che riunendosi in corteo: una cerimonia in passato più e meglio ritualizzata 
rispetto ad oggi , dopotutto, quello delle onoranze funebri è un trascorso 
,tutto sommato a noi prossimo , quando, a dare maggiore solennità alla cerimonia 
precedevano e facevano ala al defunto corone di fiori offerte dai parenti , 
amici … segno , ai più ignoto, di una potenzialità procreatrice oramai conclusa 
( i fiori sono gli organi sessuali delle piante superiori, se recisi, non 
svolgono più alcuna funzione impollinatrice) ma che vive rigogliosa nelle 
freschezza delle generazioni cui probabilmente il defunto ha dato luogo in vita 
( l’omaggio floreale ha un’interpretazione similare indiretta anche per i 
defunti che non hanno avuto discendenza poiché attraverso il loro altruismo 
hanno rinforzato , con eventuali lasciti ereditari , con la semplice cura 
parentale di coloro con cui hanno convissuto in linea diretta la discendenza dei 
parenti stretti incrementandone il successo sociale ed eventualmente anche 
procreativo ). Alla luce di quanto scritto sopra appare pertanto quantomeno 
fuorviante la frase che in epigrafe a volte si legge sui manifesti listati a 
lutto : “non fiori, ma opere di bene†. Viene da chiedersi: ma quale opera di 
bene potrebbe ritenersi di maggior conto rispetto alla procreazione o 
all’altruismo familistico dei defunti che non hanno procreato e ,ancor più 
,quello disinteressato verso l’Altro, anonimo ? Si può forse dubitare di coloro 
che per un tempo più o meno lungo sopravviveranno al defunto non si comportino 
in modo similare seguendo o avendo già seguito l’indole biologica di specie a 
moltiplicarsi o i canoni dei diritti reali della società di appartenenza o 
semplicemente il caritatevole donare disinteressato ? . Nella nostra comunità in 
genere Il tempo della veglia e delle esequie del defunto è un tempo sociale 
speciale , in particolare lo è per la famiglia che accoglie e vive quel lutto ; 
una veglia funebre che oggi è diventata davvero impropria poiché, sempre più 
dipendente dagli orari di apertura e chiusura degli obitori degli ospedali: 
luoghi delle ultime sofferenze di pazienti terminali , in cui con frequenza 
altissima oggi si muore . Pertanto si configura una “veglia†che si limita alle 
poche ore diurne che intercorrono tra il decesso e le esequie . Tuttavia, 
nonostante ciò oggi la veglia rappresenta ancora un tempo aperto ad una 
socialità improntata al conforto per la perdita , alla meditazione sulla morte , 
al ricordo degli episodi di vita salienti del morto . Una sintesi , talvolta, 
perfino ricordata durante la messa funebre in cui nell’omelia , la materialità 
del vissuto del defunto si coniuga con la trascendenza nella fede che lo ha 
supportato in vita nella speranza di una resurrezione che in chi crede verrà. 
Dopo l’aspersione e benedizione della salma il corteo, mesto , si instrada 
all’uscita della chiesa , per via Roma e , al limitare di Castellara i parenti , 
i convenuti porgono l’ultimo saluto di Paese al defunto , per poi dirigersi 
verso la Chiesa dei Cappuccini dove ricevono le condoglianze dei partecipanti 
alle esequie . In passato , il corteo funebre con in testa i parenti più 
diretti, al dissolversi alla vista degli astanti del carro funebre con il 
feretro che lentamente prendeva per la strada delle “ferriere†, con un rapido 
dietrofront ,accorato , frettoloso,con andatura svelta, si dirigeva verso 
l’abitazione del defunto per ricevere le condoglianze . Durante il percorso , 
quale che fosse la sua lunghezza, un po’ strascicato ,si udiva solo lo 
scalpiccio altalenante delle scarpe dei partecipanti sull’asfalto , talvolta 
commisto ad un mormorio sommesso , sottovoce . Oggi, come si è accennato prima, 
con minor frequenza capita di far visita al defunto in casa , vuoi perché le 
morti avvengono sempre più negli ospedali: luoghi dell’ultimo soffrire sempre 
più reso anonimo , forzato e specialistico “dall’industria sanitaria , nelle 
case di riposo dei paesi del circondario , nell’Hospice e pertanto per questioni 
pratiche e organizzative il defunto né viene più vegliato in casa e, neppure 
esce più defunto dalla sua abitazione , ad eccezione di qualche caso fortuito . 
Pertanto in un lasso di tempo breve ( accadeva correntemente solo qualche 
decennio fa, anche qui da noi) è sostanzialmente mutato il paradigma rituale 
della morte . Alla maggior parte dei defunti, benvenuta, si applica oggi una 
nuova democrazia che avendo accentuato l’esternalità delle esequie pubbliche 
riconduce di fatto tutte le morti ad un denominatore comune il cui itinerario di 
rito è piuttosto similare . Il corteo funebre, costituito da coloro che lì sono 
convenuti per accogliere l’arrivo della salma ,si forma di fronte alla chiesa 
del SS. Rosario, procede portandosi verso la Chiesa S. Maria Maggiore : la 
chiesa in cui prevalentemente viene officiata la messa funebre, per poi 
ripercorrere, a scendere, la stessa strada, dirigendosi appena la salma si è 
instradata per il cimitero per le condoglianze presso la Chiesa dei Cappuccini . 
Perché , parlando del rito sociale dei defunti , mi riferisco ad una nuova 
democrazia , rispetto alla ritualità del passato che vedeva la maggior parte dei 
decessi ( come le nascite) avvenire in casa; allora si aveva esperienza di un 
commiato confortato da una coralità familiare che si inscriveva nella cornice 
ambientale dell’abitazione in cui il defunto aveva declinato una parte 
significativa della sua quotidianità ; in un luogo in cui anche i muri erano 
impregnati del vissuto respirato del defunto ; una cornice familiare nota in cui 
la componente privata dell’abitazione anche attraverso la sua struttura: 
catapecchia, stamberga, abitazione comune o signorile , anche da morto associava 
con immediatezza nel bene o nel male (offrendo spesso distraenti spunti 
pettegoli a qualche onnipresente necrofilo ) gli ambienti di vita allo status 
del defunto . Oggi , quantomeno quest’associazione , seppure sussistente e 
supponibile viene superata da una più equa “livella†( Totò ) perché è a tutti 
evidente come formandosi e sciogliendosi i cortei funebri con modalità pressoché 
simili per la maggior parte dei defunti ciò abbia di fatto esteso nei 
comportamenti collettivi la democrazia della morte riconducendola alla sua 
essenza : un evento della vita ancora avvolto nel mistero , ma inesorabilmente 
ed irreversibilmente uguale per tutti . Un protocollo simile per tutti i 
defunti, pertanto, in quanto segno dei tempi, spazza via d’un colpo 
considerazioni sulla miseria sulla povertà, sull’agiatezza sulla signorilità 
presunta o reale del defunto eliminando così alla radice anche quel tarlo nostro 
tipicamente provinciale di spettegolare anche nelle occasioni in cui il doveroso 
rispetto per il defunto richiede una dignitosa composta riflessione sul nostro 
destino ultimo terreno . Di necessità e non tanto per convinzione, favorito 
dalle distanze dell’abitazione del defunto dai luoghi di culto, come possono 
risultare il quartiere S. Margherita , le Case Fiat, le abitazioni della 
campagna limitrofa al paese , si livella il censo , la pretenziosità eventuale 
della casa di abituale dimora del defunto riconducendo in tal modo il defunto 
all’essenzialità della sua condizione umana . Tutti nasciamo nudi ( e meno male 
che nessuna “camicia†veste il nascituro); dopotutto la nascita , come la morte 
definiscono gli estremi del nostro calendario biologico : un segmento vita che 
rimanda alla naturalità del parto . alla naturalità della morte ; eventi 
cifrati, sulle pietre tombali (sui documenti) che rimandano al calendario 
cosmico cui si accordano le nostre vite , che all’ interno del segmento 
temporale che ci è dato , senza alcuna discontinuità racchiuderà tutta la nostra 
esperienza di una vita . Per meglio rendere l’emotiva contraddittorietà con cui 
la nascita e la morte vengono accolti all’interno delle comunità umane , 
indipendentemente dalle diverse geografie in cui tali eventi avvengono prendo di 
nuovo a prestito le parole di F. Savater “ veniamo al mondo accolti dalla 
felicità dei genitori , ce ne andiamo via tra grida strilli e pianti “. Tutti 
nasciamo nudi e ci congediamo da questo mondo indossando un vestito: la nostra 
seconda pelle sociale: riepilogo dell’acquisita civiltà ; un vestito senza 
tasche , secondo la tradizione tedesca,perché non servono. Nulla porteremo 
nell’aldilà ( posto che sia ipotizzabile un aldilà della nostra già complicata 
realtà ), ma lasceremo in eredità un passato : corrente , banale o speciale che 
sia stato , che si inscriverà per un tempo più o meno lungo nella memoria di 
chi, avendo convissuto con noi o in modo più ampio ed impersonale avendo con noi 
condiviso lo stesso territorio , con generosa continuità vorrà ancora portare 
con sé qualcosa di noi ( ciò non è affatto straordinario , già avviene perché 
comunque siamo contemporanei a tanti cui in parte socializziamo il nostro 
vissuto ) nel suo cervello nei luoghi della memoria comune , per le strade del 
nostro paese , in ogni altrove in cui il ricordo potrà suscitare nostalgia o 
possa eventualmente servire da esempio e testimonianza ad altri .
Arcangelo Pretore 30 ottobre 2016
