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		9/12/2016 ● Guglionesani
"Personaggi guglionesani": Adamo D’Ugo, un guglionesano a Roma
  Antonio Sisto ● 4597 
        
        Adamo D’Ugo nasce a Guglionesi (CB) il 2 gennaio 1911, muore a Roma il 25 
aprile 2011. La madre si chiamava Marianna Masciulli. Suo padre, Camillo D’Ugo, 
nato a Guglionesi nel 1889, morì sul Carso durante la prima guerra mondiale. Le 
sue spoglie riposano nel Sacrario Militare di Redipuglia in Friuli Venezia 
Giulia, assieme ad altri valorosi caduti della Grande Guerra. 
All’età di diciotto anni emigra a Roma con la famiglia, trovando lavoro, come 
impiegato, all’Hotel Regina in via Veneto. Il 19 ottobre 1940 sposa Livia, 
figlia dell’orafo di Guglionesi Antonio Galasso. Il suo laboratorio era in via 
Galterio, vicino la chiesa di S. Antonio di Padova. Dalla loro unione nascono 
due figlie, Arianna e Patrizia che risiedono a Roma. Nel 1988 dà, alle stampe il 
libro autobiografico “Storia di un prigioniero”. Forte di varie esperienze 
maturate durante cinque anni di prigionia in terra d’Albania, con arguzia ed 
estrema lucidità tratta il tema dei militari e dei prigionieri durante la 
seconda guerra mondiale. Il 26 agosto 1988 ha partecipato alla trasmissione di 
Rai due “Colloqui” condotta da Graziella Riviera dagli studi di Torino. Essendo 
il tema “Pace e guerra” ha dato la sua testimonianza di soldato, prigioniero e 
reduce di guerra, soffermandosi sui molteplici aspetti che, hanno interessato 
questo fenomeno, comune a tantissime famiglie italiane.
“Malgrado fossero tempi difficili, con la guerra che incombeva, io e la mia 
amata Livia decidemmo di sposarci; era il 18 ottobre 1940; con sole 186 lire 
organizzammo il viaggio di nozze, percorrendo, in treno, 1718 chilometri, 
toccando le principali località del nord. Rientrati a Roma, trovai la cartolina 
di precetto. Il 2 dicembre, esattamente dopo quaranta giorni dal matrimonio, fui 
costretto a separarmi da mia moglie Livia e partire per soldato. Fui assegnato 
al 13° Reggimento Fanteria, caserma provvisoria nella chiesa di San Domenico 
all’Aquila; caricati su carri bestiame in direzione Brindisi dove ci attendeva 
la nave “Argentina”. Dopo un viaggio molto faticoso per la condizione del mare 
sbarcammo a Valona sul suolo albanese; la nave ripartì verso l’Italia caricando 
i soldati feriti e gli ammalati. Fui assegnato alla Divisione Pinerolo nei 
pressi di Berat. Ricordo con gioia l’incontro con il mio compaesano Giovanni 
Ruscitto che mi fu di grande sostegno e aiuto. Alle ore 14 dell’otto marzo del 
1941, Mussolini ispezionò le truppe dislocate lungo la serpentina di Dubrovnik; 
resosi conto della situazione, ordinò di inviare immediatamente più truppe in 
prima linea; il sottoscritto già in servizio in un reparto di retrovie, assieme 
ad altri quattordici soldati, fu spedito, immediatamente, in prima linea, alle 
ore 15 dello stesso giorno, nonostante avessi un privilegio (orfano di guerra), 
mi fecero partire ugualmente dicendomi: “Se non vuoi andare, me lo dici subito, 
così adesso che ripassa il Duce glie lo comunicheremo e ti attaccheremo al 
muro”. Trascorsi pochi mesi al fronte e poi fui trasferito nei pressi di Tirana. 
L’otto settembre 1943 fu proclamato l’armistizio; il giorno successivo fummo 
fatti prigionieri dai tedeschi e riarmati perché dovevamo difenderci dai 
partigiani. Il nostro Colonnello comandante ci fece il discorso di addio: “Sono 
giornate grigie per noi, ma non disperate perché il sole tornerà a risplendere. 
Raccomando vivamente di non abbandonare per nessun motivo il fucile 
riconsegnatovi, e se un giorno, piacendo a Dio, m’incontrate per le vie 
d’Italia, chiamatemi, vi prego, perché voglio stringervi la mano, abbracciarvi 
e, credetemi, ve lo giuro, sarà una delle più grandi soddisfazioni della mia 
vita che non potrò mai dimenticare”. Una grande colonna di camion carichi di 
prigionieri partì in direzione Jugoslavia; lungo la strada tutti gli animali che 
erano al pascolo, erano falciati con raffiche di mitra. Durante una sosta in un 
bosco ci fu un ordine, un gruppo di venticinque prigionieri doveva rimanere in 
Albania e tra questi c’ero anch’io; ci portarono in una caserma, ci disarmarono 
subito e poi ci chiesero il volontariato all’esercito tedesco; quattro firmarono 
e ventuno dissero di no, tra i non firmatari c’ero anch’io. Era l’otto dicembre 
1943 e dovevamo subire delle strane rappresaglie, tipo uscire solo in mutandine 
nonostante ci fosse neve per terra. Più tardi ci inviarono al carcere di 
Elbassan per essere processati. Parecchi volevano tornare indietro per firmare, 
ma le sentinelle non accettarono, e con la forza ci buttarono dentro. Spesso ci 
chiedevano: “Siete di Mussolini o di Badoglio?”, chiedendoci il volontariato ai 
battaglioni “M” (Battaglioni di Mussolini). Nel carcere si assisteva a scene 
pietose. Intanto ogni notte, tra grida e pianti, i prigionieri designati 
andavano alla morte riempiendo le fosse scavate da noi che dicevano, essere per 
i cani randagi. Il tredici dicembre, senza nessun processo ci inviarono al campo 
di concentramento di Devoli. Eravamo 700 prigionieri addetti a scavare le 
montagne per istallarci la raffineria dei petroli e i cannoni a lunga gittata 
che avrebbero dovuto sparare sull’Europa. Qui i preti ci furono di grande aiuto, 
morale e materiale. Quasi ogni giorno arrivavano con dei sacchi pieni di pane e 
tabacco per distribuirlo ai prigionieri sul lavoro. A Natale a un sacerdote che 
voleva celebrare la Santa Messa, gli fu risposto: “Se non te ne vai, ti facciamo 
rimanere stecchito tra i reticolati”; non si scoraggiò, andò a Tirana al comando 
tedesco e ottenuto il permesso nel pomeriggio celebrò la Santa Messa 
commovendoci fino alle lacrime. Disse all’omelia: “Non meritate questa condanna! 
Quest’umiliazione! Possa il Signore, con la sua benedizione, darvi la forza di 
superare gli ostacoli e i sacrifici in questa terra albanese bagnata dal vostro 
sangue; e, sempre nel nome del Signore, vada il mio più devoto e affettuoso 
saluto alle vostre spose, ai vostri figli e alle vostre madri”. Erano gli inizi 
del 1944 e la fame deteneva il primato. Fui costretto, per sopravvivere, a 
vendermi la fede nuziale, al camionista Pallotta di Milano. A seguito di un 
bombardamento ci furono delle vittime e i preti chiesero ai tedeschi di 
utilizzare un gruppo di prigionieri per dare una degna sepoltura ai morti; a quest’operazione partecipai anch’io; dietro le nostre spalle avevamo una scritta 
quaranta X 40 “A.G.” derivante dalla parola “tedesca” Kriegsgefangener 
prigioniero di guerra. Alla fine di agosto i tedeschi abbandonarono l’Albania; 
tutti i ponti saltavano in aria dopo il nostro passaggio per impedire alle 
colonne partigiane di inseguirci. Progettammo una fuga; eravamo in tre e lo 
realizzammo; un pecoraio ci aiutò nei pressi di un cimitero abbandonato; 
attraversammo un fiume con un tronco d’albero; giunti all’altra sponda fummo 
fatti prigionieri, per la seconda volta, dalla gendarmeria albanese; correva 
l’anno 1944, mese di ottobre. Condotti in una caserma a Lusnia, vi trovammo 
anche dei soldati tedeschi catturati dagli albanesi; fu una prigionia 
privilegiata, perché i tedeschi dormivano sul cemento armato e noi italiani sul 
tavolaccio. In cambio di queste agevolazioni prendemmo l’impegno di un lavoro 
tre volte la settimana, facendo dei lavori stradali senza vitto, senza alloggio 
e senza paga, ascoltando sempre il ritornello: “Vi dobbiamo insegnare la 
dottrina comunista”. Ancora una volta riuscii a fuggire diretto verso la 
capitale Tirana. Qui iniziai a chiedere per un lavoro ma era molto difficile 
trovarlo. Chiedendo e bussando, alla fine riuscii a trovare un lavoro saltuario 
come pasticciere. Stavo bene, ma durò poco. Mi mandarono via perché avevo i 
pidocchi e non era compatibile con il lavoro; poi mi prese un commerciante per 
aiutare la moglie a fare dei lavori a casa. Qui conobbi la bontà dei fagioli 
albanesi e mi dissero che era il loro piatto nazionale. Andando in giro par 
Tirana ebbi la fortuna d’incontrare altri ex prigionieri italiani. Frequentavamo 
il circolo “Garibaldi” dove si riunivano tutti gli sbandati italiani. Trovai 
lavoro presso l’hotel Continental di Tirana; mi fu molto utile l’esperienza 
all’hotel Regina perché il padrone del Continental e quello di Roma si 
conoscevano. Nell’aria si percepiva che il mio rientro era imminente. In seguito 
lavorai presso l’ambasciata della Turchia. Alla fine di maggio del 1945, 
finalmente avvenne il rimpatrio. Partimmo con una nave italiana e attraccammo al 
porto di Taranto. Appena sbarcammo, non fummo accolti molto bene; un gruppo di 
“urlatori” inveiva contro di noi urlando: “Perché siete tornati. Qui si muore di 
fame”. (Un uovo costava sette lire, un litro di vino sessanta). Al campo di 
accoglienza trovammo tanti giovani preti che ci confortarono, raccontandoci 
barzellette e offrendoci sigarette e caramelle. Dopo qualche giorno un treno ci 
riportò a casa. A Guglionesi, mi aspettava mia moglie e la mia famiglia; era il 
giorno di S. Antonio di Padova; durante la processione che, secondo la 
tradizione, si stava svolgendo in paese, per la grazia ricevuta, feci un’offerta 
al Santo. Correva l’anno domini 1945, mercoledì 13 giugno”.

Adamo D'Ugo
