BLOG FONDATO NEL GIUGNO DEL 2000
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Un viaggio nella cultura non ha alcuna meta: la Bellezza genera sensibilità alla consapevolezza.

Luigi Sorella (blogger).
Nato nel 1968.

Operatore con esperienze professionali (web designer, copywriter, direttore di collana editoriale, videomaker, fotografia digitale professionale, graphic developer), dal 2000 è attivo nel campo dell'innovazione, nella comunicazione, nell'informazione e nella divulgazione (impaginazioni d'arte per libri, cataloghi, opuscoli, allestimenti, grafiche etc.) delle soluzioni digitali, della rete, della stampa, della progettazione multimediale, della programmazione, della gestione web e della video-fotografia. Svolge la sua attività professionale presso la ditta ARS idea studio di Guglionesi.

Come operatore con esperienza professionale e qualificata per la progettazione e la gestione informatica su piattaforme digtiali è in possesso delle certificazioni European Informatics Passport.

Il 10 giugno del 2000 fonda il blog FUORI PORTA WEB, tra i primi blog fondati in Italia (circa 3.200.000 visualizzazioni/letture, cfr link).
Le divulgazioni del blog, a carattere culturale nonché editoriale, sono state riprese e citate da pubblicazioni internazionali.

Ha pubblicato libri di varia saggistica divulgativa, collaborando a numerose iniziative culturali.

"E Luigi svela, così, l'irresistibile follia interiore per l'alma terra dei padri sacra e santa." Vincenzo Di Sabato

Per ulteriori informazioni   LUIGI SORELLA


9/4/2018 ● Cultura

Immagine vs. Identità


  Mario Vaccaro ● 1521


La scenografia in cui è ambientata la presente riflessione l’ho già descritta più volte: la modernità e le peculiari caratteristiche che la stanno connotando come un’epoca assolutamente straordinaria. I mutamenti, tuttora in corso, avvengono in maniera così repentina che l’uomo contemporaneo credo abbia l’impressione di vivere in uno di quei b-movie di fantascienza che si vedeva da ragazzi. Insomma, quella mutazione antropologica profetizzata mezzo secolo fa da Pasolini – dalla identità-appartenenza ad una secolare cultura contadina si è passati all’essere una massa indistinta di apolidi consumatori - si è spinta oltre ogni immaginazione. In questo caso gli antesignani sono coloro che un secolo fa, nel loro Manifesto futurista, magnificavano le virtù del mondo nuovo … la bellezza e l’ebbrezza della velocità, in contrapposizione all’immobilismo ottocentesco. La progressiva accelerazione ha condotto all’attuale “high speed society”, che assume il tempo come paradigma di ogni settore del vivere sociale. La velocità non serve più unicamente a percorrere maggiori quantità di spazio nell’unità di tempo, ma a guadagnare quella che oramai è diventata una moneta, una moderna divisa universale che ognuno può coniare da sé, comprimendo il tempo così da poterlo spendere per ulteriori attività.
E così la velocità ci rende multitasking, e tuttavia sta progressivamente profanando ambiti in cui la lentezza è tradizionalmente connaturata alla sacralità del rito sociale. Si pensi allo “speed dating”, l’appuntamento veloce, in cui la premeditata compressione del tempo viola la principale regola del galateo dei rapporti interpersonali, l’attenzione e l’ascolto dell’altro, ovvero il piacere di trascorrere del tempo insieme. Anche nel versante dei rapporti familiari il tempo va speso con parsimonia? Ok, ecco pronta una locuzione al servizio della retorica del caso: “quality time”… il tempo è poco ma vale di più. Per noi italiani, poi, ancor più dissacrante è il concetto di “fast food”: la nostra cultura gastronomica si è sempre contraddistinta in quanto espressione di una cucina intesa come manifestazione di una liturgia nel cui ambito le madri assumevano le vesti di sacerdotesse – la cui investitura proveniva dall’amata-odiata suocera – officianti quello che rappresentava un vero e proprio rito all’interno della quotidianità familiare, da consumarsi in un’esasperante eppur piacevole lentezza, sia nella fase di preparazione che di consumo dei cibi … non è un caso che proprio in Italia Pedrini battezzi il concetto di “slow food”.
E così già negli anni’70 il filosofo Paul Virilio conia il termine “dromocrazia”, il governo della velocità … “se il tempo è denaro, la velocità è potere”. Sarà, ma risparmiare tempo facendo cose più velocemente non migliorerà la nostra qualità di vita fintanto che il tempo guadagnato non sceglieremo di convertirlo in tempo libero (mi viene in mente, del Carosello, la pubblicità del Cynar con Calindri, seduto in mezzo al traffico, che invitava ad un relax “contro il logorio della vita moderna …”).

Predisposta la scenografia, entrano in scena i due antagonisti … immagine e identità. Si chiamano diversamente, eppure oggi si tende a confonderli … da qui la presente riflessione. Per comodità esplicativa farò riferimento al concetto di identità artistica, comunque riconducibile alla medesima matrice, ovvero quell’identità culturale da cui ogni individuo non può prescindere. Lo spunto è venuto fuori di recente, proprio da un episodio reale. Durante il rito mattutino del caffè al bar, la radio trasmette un brano dei Queen e, in successione, un Bowie in versione “dance” anni ’80. Dopo aver magnificato i primi, l’interlocutore di turno sminuisce la qualità artistica del secondo. Occhio! … non si parlava di gusti musicali ma … diciamo così … delle coordinate della loro dimensione artistica. Dunque, vediamo un po’… i Queen: straordinari musicisti ed un frontman eccezionale, con doti vocali fuori dal comune … tutte circostanze universalmente riscontrate in occasione del Live Aid. Estetica di qualità, ma quale narrazione? A sua volta Bowie, per così dire, gareggiava in un altro sport. Determinato a seguire una carriera musicale, che nella Swinging London rappresentava un terreno artistico facilmente accessibile, impiegò molti anni prima di incontrare il successo. All’epoca era normale, per un’etichetta discografica, produrre album interlocutori ad un artista esordiente, nella consapevolezza che questi dovesse gradualmente raggiungere la maturazione artistica … pensiamo a Battiato, De André e alla loro lunga gavetta, oppure alla evoluzione di Gaber, da cantante di hit di successo ad interprete della forma teatro-canzone. Nel corso di una trasferta a NY visita la Factory di Warhol, l’esempio ideale del proficuo connubio tra arti visive, musica e cultura underground. Lì conosce Lou Reed che, con doti vocali e strumentali non eccelse, diventa il cantore della NY dei bassifondi. D’altronde l’arte serve a questo, offre bellezza ma anche informazioni, estetica ed etica. Capisce dunque di dover trovare una propria identità artistica. La sua immaginazione – si era nel periodo dei primi viaggi spaziali - partorisce il personaggio di Ziggy Stardust e una narrazione talmente efficace da indurre in molti fans deliranti la cd sospensione dell’incredulità … l’alter ego aveva preso il sopravvento. Nella sua carriera Bowie vivrà più vite artistiche, e darà voce ad altri alter ego – il “Duca Bianco” sarà il più caratterizzante -, ciascuna delle quali ha lasciato una traccia nell’immaginario collettivo. Come i Queen ha composto bellissimi brani, ugualmente esplorando vari generi, tuttavia lui è andato al di là del fatto estetico: la musica ha rappresentato uno strumento come un altro per comunicare quanto aveva da dire. Ergo, di Bowie si parlerà anche nel prossimo secolo, mentre dubito che lo si farà dei Queen. Oggi, nella dromocrazia, probabilmente il giovane Bowie avrebbe fatto un provino ad un talent. Lì avrebbe incrociato qualcuno con una preparazione tecnica superiore, oppure capace di offrire un’immagine maggiormente gradita al pubblico … altrettanto probabilmente non sarebbe diventato uno degli artisti più influenti del ‘900.

La velocità oggi impone una comunicazione immediata, quindi si offre un’immagine, ovvero si comunica come si vuole apparire. Lasciamo come al solito che siano le parole a spiegarsi da sé: la radice di immagine, imare, è la stessa di “imitazione”. L’immagine è dunque l’imitazione di un’idea preesistente, è un simulacro, qualcosa di artificiale. La radice di identità è “idem”, stessa cosa … quindi è l’atto di riconoscersi in qualcosa. Se l’immagine è mera rappresentazione, informazione di ciò che appare, l’identità è informazione di ciò che è. L’identità è la narrazione di sé, un racconto che si costruisce nel corso del tempo, aggiungendo un tassello dopo l’altro. In questo lavoro esistenziale un aiuto ci viene dall’arte e dalla cultura in genere, ovvero si tende l’orecchio a chi, in un’opera qualunque … di narrativa, musica, pittura ecc. … racconta qualcosa di sé per raccontare qualcosa degli altri. Così si conosce se stessi e si costruisce la propria identità, riconoscendo pezzi della stessa in coloro che, forti della propria sensibilità, ci hanno comunicato informazioni che riconosciamo come autentiche.
Dunque non è l’identità psicologica, ovvero la semplice percezione di sé in rapporto alla società, che ci definisce, bensì è quella culturale. La prima non dice nulla di noi, mentre è la seconda che racconta chi siamo, definisce quale persona abbiamo scelto di essere tra le innumerevoli maschere che potevamo indossare. E siccome la nostra mente formula pensieri narrativi, l’identità è il racconto di noi stessi, delle nostre diversità, delle specificità nei riferimenti culturali. L’omologazione va combattuta proprio perché disinnesca il processo di identificazione, con cui il particolare si specchia nell’universale. Questo meccanismo di proiezione è un fattore dinamico: la narrazione della nostra identità si arricchisce di nuovi tasselli ogniqualvolta scopriamo qualcosa di noi grazie alla rivelazione di coloro che scegliamo come nostri punti di riferimento. È un movimento circolare quello della costruzione ed esibizione della propria identità, una sorta di catena di Sant’Antonio, una rete di corsi d’acqua che vanno a sfociare nell’immaginario collettivo. Ciascuno arricchisce la propria narrazione di sé grazie ai riferimenti esterni, diventando a sua volta un riferimento per gli altri: da questo processo virtuoso si innesca il progresso umano, a cui ciascuno di noi può a suo modo contribuire. E ripeto per la terza volta la definizione di Leibniz sull’essenza umana … siamo punti di vista. Il punto di vista di ciascuno, unico e insostituibile, è un’informazione che contribuisce alla rappresentazione della realtà; l’artista è semplicemente colui che assolve a questo compito in maniera più efficace, perché riesce a rendere interessante le informazioni che dà, confezionandole meglio grazie ad uno spiccato senso estetico.

Il rock è stato visto come un segno di decadenza, la musica del diavolo. Certo, per gli amanti dello status quo … cattolicesimo in primis. Eppure non “sono solo canzonette”. La musica moderna ha veicolato l’emancipazione di quei giovani che sino ad allora non esistevano come soggetti attivi, non avevano identità. Una società che esclude i giovani dal processo di crescita culturale è una società sterile, incapace di trasformare la memoria in progetto, quindi di plasmare il futuro. Fino alla seconda metà del ‘900 un manipolo di intellettuali si occupava del progresso umano e civile. Oggi i riti che quotidianamente officiamo (per i quali mi astengo dal fornire giudizi di merito), che hanno radicalmente trasformato le nostre vite, sono il frutto di giovanissimi visionari … Apple, Microsoft, Google, Facebook … ed è solo l’inizio, quindi il meglio deve ancora venire. Ma, e finalmente chiudo, così come solo i “vecchi” non possono essere interpreti dei loro tempi, anche le nuove leve mostrano un lato incompiuto. L’identità è una costruzione della memoria, che costruisce nel tempo l’unità narrativa autobiografica del soggetto grazie alla capacità di rievocare ciò in cui, appunto, ci identifichiamo. Memoria e progetto, vecchi e giovani, questi sono i poli del processo dialettico che, se virtuosamente innescato, conduce al progresso civile.
Oggi, come sempre, ci si propone agli altri per costruirsi una reputazione … terzo personaggio. Oggi la si vuol costruire velocemente, con l’immagine dunque, anziché con la lenta costruzione dell’identità. Ma la reputazione è un concetto di relazione, non dipende solo da noi. Viene da potare, cioè tagliare i rami inutili. E infatti il buon giudizio consiste proprio nel depurare la parte preziosa dall’inutile orpello. Dunque è una contraddizione in termini cercare il positivo giudizio degli altri offrendo loro l’immagine di se stessi, del come si vuol apparire. Il prefisso “re”, poi, indica una ripetizione: ovvio, dato che la reputazione è frutto di un work in progress che (in)segue la costruzione in itinere dell’identità.

Quanto detto sembra fatto apposta per evidenziare che la reputazione a cui aneliamo nei social … la raccolta del maggior numero di like e condivisioni … è virtuale quanto il media utilizzato … #menefrego. Il campanello d’allarme credo vada invece attivato nei confronti degli aspetti della vita reale. Ad esempio non posso fare a meno di pensare che nell’arco di tre mesi saremo chiamati più volte a scegliere tra persone che chiedono la nostra approvazione. Ci chiedono una delega per governare la casa in cui viviamo. Quando si sceglie una governante si analizzano le credenziali, quindi la sua storia, visto che la sua attività avrà un’influenza diretta sulle nostre vite, quelle reali. I candidati (dal solito latino, è un riferimento al candore delle vesti dei senatori come metafora della corrispondente pulizia morale) esibiscono la loro identità per ottenere il nostro consenso?





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