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		9/4/2018 ● Cultura
Immagine vs. Identità
 Mario Vaccaro ● 1868
  Mario Vaccaro ● 1868 
        
        La scenografia in cui è ambientata la presente riflessione l’ho già descritta 
più volte: la modernità e le peculiari caratteristiche che la stanno connotando 
come un’epoca assolutamente straordinaria. I mutamenti, tuttora in corso, 
avvengono in maniera così repentina che l’uomo contemporaneo credo abbia 
l’impressione di vivere in uno di quei b-movie di fantascienza che si vedeva da 
ragazzi. Insomma, quella mutazione antropologica profetizzata mezzo secolo fa da 
Pasolini – dalla identità-appartenenza ad una secolare cultura contadina si è 
passati all’essere una massa indistinta di apolidi consumatori - si è spinta 
oltre ogni immaginazione. In questo caso gli antesignani sono coloro che un 
secolo fa, nel loro Manifesto futurista, magnificavano le virtù del mondo nuovo 
… la bellezza e l’ebbrezza della velocità, in contrapposizione all’immobilismo 
ottocentesco. La progressiva accelerazione ha condotto all’attuale “high speed 
society”, che assume il tempo come paradigma di ogni settore del vivere sociale. 
La velocità non serve più unicamente a percorrere maggiori quantità di spazio 
nell’unità di tempo, ma a guadagnare quella che oramai è diventata una moneta, 
una moderna divisa universale che ognuno può coniare da sé, comprimendo il tempo 
così da poterlo spendere per ulteriori attività.
E così la velocità ci rende multitasking, e tuttavia sta progressivamente 
profanando ambiti in cui la lentezza è tradizionalmente connaturata alla 
sacralità del rito sociale. Si pensi allo “speed dating”, l’appuntamento veloce, 
in cui la premeditata compressione del tempo viola la principale regola del 
galateo dei rapporti interpersonali, l’attenzione e l’ascolto dell’altro, ovvero 
il piacere di trascorrere del tempo insieme. Anche nel versante dei rapporti 
familiari il tempo va speso con parsimonia? Ok, ecco pronta una locuzione al 
servizio della retorica del caso: “quality time”… il tempo è poco ma vale di 
più. Per noi italiani, poi, ancor più dissacrante è il concetto di “fast food”: 
la nostra cultura gastronomica si è sempre contraddistinta in quanto espressione 
di una cucina intesa come manifestazione di una liturgia nel cui ambito le madri 
assumevano le vesti di sacerdotesse – la cui investitura proveniva 
dall’amata-odiata suocera – officianti quello che rappresentava un vero e 
proprio rito all’interno della quotidianità familiare, da consumarsi in 
un’esasperante eppur piacevole lentezza, sia nella fase di preparazione che di 
consumo dei cibi … non è un caso che proprio in Italia Pedrini battezzi il 
concetto di “slow food”. 
E così già negli anni’70 il filosofo Paul Virilio conia il termine “dromocrazia”, 
il governo della velocità … “se il tempo è denaro, la velocità è potere”. Sarà, 
ma risparmiare tempo facendo cose più velocemente non migliorerà la nostra 
qualità di vita fintanto che il tempo guadagnato non sceglieremo di convertirlo 
in tempo libero (mi viene in mente, del Carosello, la pubblicità del Cynar con 
Calindri, seduto in mezzo al traffico, che invitava ad un relax “contro il 
logorio della vita moderna …”).
Predisposta la scenografia, entrano in scena i due antagonisti … immagine e 
identità. Si chiamano diversamente, eppure oggi si tende a confonderli … da qui 
la presente riflessione. Per comodità esplicativa farò riferimento al concetto 
di identità artistica, comunque riconducibile alla medesima matrice, ovvero 
quell’identità culturale da cui ogni individuo non può prescindere. Lo spunto è 
venuto fuori di recente, proprio da un episodio reale. Durante il rito mattutino 
del caffè al bar, la radio trasmette un brano dei Queen e, in successione, un 
Bowie in versione “dance” anni ’80. Dopo aver magnificato i primi, 
l’interlocutore di turno sminuisce la qualità artistica del secondo. Occhio! … 
non si parlava di gusti musicali ma … diciamo così … delle coordinate della loro 
dimensione artistica. Dunque, vediamo un po’… i Queen: straordinari musicisti ed 
un frontman eccezionale, con doti vocali fuori dal comune … tutte circostanze 
universalmente riscontrate in occasione del Live Aid. Estetica di qualità, ma 
quale narrazione? A sua volta Bowie, per così dire, gareggiava in un altro 
sport. Determinato a seguire una carriera musicale, che nella Swinging London 
rappresentava un terreno artistico facilmente accessibile, impiegò molti anni 
prima di incontrare il successo. All’epoca era normale, per un’etichetta 
discografica, produrre album interlocutori ad un artista esordiente, nella 
consapevolezza che questi dovesse gradualmente raggiungere la maturazione 
artistica … pensiamo a Battiato, De André e alla loro lunga gavetta, oppure alla 
evoluzione di Gaber, da cantante di hit di successo ad interprete della forma 
teatro-canzone. Nel corso di una trasferta a NY visita la Factory di Warhol, 
l’esempio ideale del proficuo connubio tra arti visive, musica e cultura 
underground. Lì conosce Lou Reed che, con doti vocali e strumentali non eccelse, 
diventa il cantore della NY dei bassifondi. D’altronde l’arte serve a questo, 
offre bellezza ma anche informazioni, estetica ed etica. Capisce dunque di dover 
trovare una propria identità artistica. La sua immaginazione – si era nel 
periodo dei primi viaggi spaziali - partorisce il personaggio di Ziggy Stardust 
e una narrazione talmente efficace da indurre in molti fans deliranti la cd 
sospensione dell’incredulità … l’alter ego aveva preso il sopravvento. Nella sua 
carriera Bowie vivrà più vite artistiche, e darà voce ad altri alter ego – il 
“Duca Bianco” sarà il più caratterizzante -, ciascuna delle quali ha lasciato 
una traccia nell’immaginario collettivo. Come i Queen ha composto bellissimi 
brani, ugualmente esplorando vari generi, tuttavia lui è andato al di là del 
fatto estetico: la musica ha rappresentato uno strumento come un altro per 
comunicare quanto aveva da dire. Ergo, di Bowie si parlerà anche nel prossimo 
secolo, mentre dubito che lo si farà dei Queen. Oggi, nella dromocrazia, 
probabilmente il giovane Bowie avrebbe fatto un provino ad un talent. Lì avrebbe 
incrociato qualcuno con una preparazione tecnica superiore, oppure capace di 
offrire un’immagine maggiormente gradita al pubblico … altrettanto probabilmente 
non sarebbe diventato uno degli artisti più influenti del ‘900.
La velocità oggi impone una comunicazione immediata, quindi si offre 
un’immagine, ovvero si comunica come si vuole apparire. Lasciamo come al solito 
che siano le parole a spiegarsi da sé: la radice di immagine, imare, è la stessa 
di “imitazione”. L’immagine è dunque l’imitazione di un’idea preesistente, è un 
simulacro, qualcosa di artificiale. La radice di identità è “idem”, stessa cosa 
… quindi è l’atto di riconoscersi in qualcosa. Se l’immagine è mera 
rappresentazione, informazione di ciò che appare, l’identità è informazione di 
ciò che è. L’identità è la narrazione di sé, un racconto che si costruisce nel 
corso del tempo, aggiungendo un tassello dopo l’altro. In questo lavoro 
esistenziale un aiuto ci viene dall’arte e dalla cultura in genere, ovvero si 
tende l’orecchio a chi, in un’opera qualunque … di narrativa, musica, pittura 
ecc. … racconta qualcosa di sé per raccontare qualcosa degli altri. Così si 
conosce se stessi e si costruisce la propria identità, riconoscendo pezzi della 
stessa in coloro che, forti della propria sensibilità, ci hanno comunicato 
informazioni che riconosciamo come autentiche. 
Dunque non è l’identità psicologica, ovvero la semplice percezione di sé in 
rapporto alla società, che ci definisce, bensì è quella culturale. La prima non 
dice nulla di noi, mentre è la seconda che racconta chi siamo, definisce quale 
persona abbiamo scelto di essere tra le innumerevoli maschere che potevamo 
indossare. E siccome la nostra mente formula pensieri narrativi, l’identità è il 
racconto di noi stessi, delle nostre diversità, delle specificità nei 
riferimenti culturali. L’omologazione va combattuta proprio perché disinnesca il 
processo di identificazione, con cui il particolare si specchia nell’universale. 
Questo meccanismo di proiezione è un fattore dinamico: la narrazione della 
nostra identità si arricchisce di nuovi tasselli ogniqualvolta scopriamo 
qualcosa di noi grazie alla rivelazione di coloro che scegliamo come nostri 
punti di riferimento. È un movimento circolare quello della costruzione ed 
esibizione della propria identità, una sorta di catena di Sant’Antonio, una rete 
di corsi d’acqua che vanno a sfociare nell’immaginario collettivo. Ciascuno 
arricchisce la propria narrazione di sé grazie ai riferimenti esterni, 
diventando a sua volta un riferimento per gli altri: da questo processo virtuoso 
si innesca il progresso umano, a cui ciascuno di noi può a suo modo contribuire. 
E ripeto per la terza volta la definizione di Leibniz sull’essenza umana … siamo 
punti di vista. Il punto di vista di ciascuno, unico e insostituibile, è 
un’informazione che contribuisce alla rappresentazione della realtà; l’artista è 
semplicemente colui che assolve a questo compito in maniera più efficace, perché 
riesce a rendere interessante le informazioni che dà, confezionandole meglio 
grazie ad uno spiccato senso estetico.
Il rock è stato visto come un segno di decadenza, la musica del diavolo. Certo, 
per gli amanti dello status quo … cattolicesimo in primis. Eppure non “sono solo 
canzonette”. La musica moderna ha veicolato l’emancipazione di quei giovani che 
sino ad allora non esistevano come soggetti attivi, non avevano identità. Una 
società che esclude i giovani dal processo di crescita culturale è una società 
sterile, incapace di trasformare la memoria in progetto, quindi di plasmare il 
futuro. Fino alla seconda metà del ‘900 un manipolo di intellettuali si occupava 
del progresso umano e civile. Oggi i riti che quotidianamente officiamo (per i 
quali mi astengo dal fornire giudizi di merito), che hanno radicalmente 
trasformato le nostre vite, sono il frutto di giovanissimi visionari … Apple, 
Microsoft, Google, Facebook … ed è solo l’inizio, quindi il meglio deve ancora 
venire. Ma, e finalmente chiudo, così come solo i “vecchi” non possono essere 
interpreti dei loro tempi, anche le nuove leve mostrano un lato incompiuto. 
L’identità è una costruzione della memoria, che costruisce nel tempo l’unità 
narrativa autobiografica del soggetto grazie alla capacità di rievocare ciò in 
cui, appunto, ci identifichiamo. Memoria e progetto, vecchi e giovani, questi 
sono i poli del processo dialettico che, se virtuosamente innescato, conduce al 
progresso civile.
Oggi, come sempre, ci si propone agli altri per costruirsi una reputazione … 
terzo personaggio. Oggi la si vuol costruire velocemente, con l’immagine dunque, 
anziché con la lenta costruzione dell’identità. Ma la reputazione è un concetto 
di relazione, non dipende solo da noi. Viene da potare, cioè tagliare i rami 
inutili. E infatti il buon giudizio consiste proprio nel depurare la parte 
preziosa dall’inutile orpello. Dunque è una contraddizione in termini cercare il 
positivo giudizio degli altri offrendo loro l’immagine di se stessi, del come si 
vuol apparire. Il prefisso “re”, poi, indica una ripetizione: ovvio, dato che la 
reputazione è frutto di un work in progress che (in)segue la costruzione in 
itinere dell’identità.
Quanto detto sembra fatto apposta per evidenziare che la reputazione a cui 
aneliamo nei social … la raccolta del maggior numero di like e condivisioni … è 
virtuale quanto il media utilizzato … #menefrego. Il campanello d’allarme credo 
vada invece attivato nei confronti degli aspetti della vita reale. Ad esempio 
non posso fare a meno di pensare che nell’arco di tre mesi saremo chiamati più 
volte a scegliere tra persone che chiedono la nostra approvazione. Ci chiedono 
una delega per governare la casa in cui viviamo. Quando si sceglie una 
governante si analizzano le credenziali, quindi la sua storia, visto che la sua 
attività avrà un’influenza diretta sulle nostre vite, quelle reali. I candidati 
(dal solito latino, è un riferimento al candore delle vesti dei senatori come 
metafora della corrispondente pulizia morale) esibiscono la loro identità per 
ottenere il nostro consenso?
