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		17/4/2022 ● Cultura
Isaia e la rugiada di luce
 Redazione FPW ● 679
  Redazione FPW ● 679 
        
        [Gianfranco Ravasi, in "Isaia e la rugiada di luce. La morte della morte nelle profezie dell'Antico Testamento", 
L'Osservatore Romano 24 aprile 2011] - Nel suo volume Gesù di Nazaret. Dall'ingresso a 
Gerusalemme fino alla risurrezione, dedicato alle ultime ore terrene di Cristo 
anzi, all'Ora per eccellenza come l'evangelista Giovanni definisce la passione e 
la morte, ma anche la risurrezione, Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha usato 
spesso una sorta di prisma ottico interpretativo, quello della profezia 
anticotestamentaria. A essa rimandano sia lo stesso Gesù per illuminare le 
vicende che egli sta vivendo, sia la Chiesa delle origini per decifrare il senso 
ultimo di quegli eventi. È noto che uno dei paradigmi ermeneutici capitali è, al 
riguardo, il celebre quarto canto del Servo del Signore (Isaia, 52, 13 - 53, 12) 
che domina nella redazione evangelica e nello stesso libro del Papa. Noi ora, 
molto liberamente, vorremmo proporre la rilettura di un altro passo isaiano, 
anch'esso riconducibile a quelle sezioni dello scritto in cui è all'opera un 
profeta anonimo posteriore di un paio di secoli all'Isaia classico (VIII secolo 
prima dell'era cristiana). Egli fu testimone del ritorno di Israele al focolare 
nazionale dopo l'esilio babilonese (VI secolo), ed è stato convenzionalmente 
denominato dagli studiosi come il Secondo o Deutero Isaia.
Non è l'unico passo in cui sembra brillare l'alba della risurrezione oltre la 
fine dell'esistenza terrena. Poche righe prima, infatti, lo stesso autore 
proclamava: "Il Signore Dio eliminerà la morte per sempre e asciugherà le 
lacrime su ogni volto" (25, 8). Ora, si sa che nell'antico Israele l'idea 
dominante dell'oltrevita era stata a lungo quella di una sopravvivenza larvale, 
nello Sheol, una regione sotterranea tenebrosa, polverosa e muta: "Gli inferi 
non ti lodano, o Signore, né la morte ti canta inni, quanti scendono nella fossa 
non sperano nella tua fedeltà", esclamava il re Ezechia appena guarito da una 
grave malattia (Isaia, 38, 18).
Il testo "pasquale" deuteroisaiano che ora proponiamo è collocato all'interno 
della cosiddetta Apocalisse di Isaia (24-27) e si compone di due soli versetti 
antitetici: "I morti non vivranno più, le ombre non risorgeranno: sì, tu li hai 
puniti e distrutti e fatto svanire ogni loro ricordo... / Di nuovo vivranno i 
tuoi morti. I cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate voi che giacete 
nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le 
ombre" (Isaia, 26, 14-19). Tra questi estremi il profeta introduce un'altra 
immagine di grande veemenza, quella di una gravidanza isterica, segno di una 
vita illusoria, di un grembo solo apparentemente fecondo, di sintomi generativi 
con doglie e coi contorcimenti del parto che producono, però, solo vuoto: "Come 
una donna incinta che sta per partorire si contorce e grida nei dolori, così 
siamo di fronte a te, Signore. Abbiamo concepito, abbiamo sentito le doglie 
quasi dovessimo partorire: era solo vento" (26, 17-18). Ecco, dunque, un esito 
non di vita ma di morte: anziché dare alla luce una solida e carnale creatura 
umana, si ha soltanto l'inconsistenza di un soffio, di un'ombra illusoria di 
vita.
Che significa, perciò, questa sequenza di morte, di vita illusoria e di 
risurrezione? Il testo di per sé potrebbe essere solamente un carme simbolico 
per celebrare un'epopea di rinascita nazionale in cui fa capolino anche il 
peccato di Israele che si illude di poter partorire da solo la salvezza, 
attirandosi così la punizione divina, ma lasciando anche spazio all'opera di Dio 
che fa risorgere dal tronco morto della nazione un "resto" giusto di fedeli che 
attestano e incarnano la "risurrezione" di Israele.
Tuttavia, questa eventuale lettura della storia nazionale, nelle connotazioni 
dei versi del profeta e nella rilettura successiva alla luce della fede biblica 
nell'immortalità beata e nella risurrezione, è divenuta una parabola di speranza 
trascendente. Ed è in questa prospettiva che noi ora la leggiamo, tenendo sullo 
sfondo altre pagine della Bibbia aperte a un "oltre" la morte, come il possente 
e grandioso scenario delle ossa aride che risorgono, dipinto da Ezechiele (37).
La prima parola del canto è metîm, "morti", e la prima fase è negativa: "i morti 
non vivranno più" (v. 14). L'ultima parola sarà, invece, tappîl, "dare alla 
luce, generare alla vita" e l'ultima frase sarà positiva: "la terra darà alla 
luce le ombre" (v. 19). Siamo, dunque, sospesi tra due poli antitetici: Dio è il 
Signore della morte e della vita, è lui che annienta e che fa rinascere, a lui è 
sottomessa anche la sterilità che è come un parto di vento, ma egli è 
soprattutto il principio della fecondità e della vita. Come cantava Anna, la 
madre di Samuele, "il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e 
risalire" (1 Samuele, 2, 6).
Certo, in filigrana a questa oscillazione tra i due poli della risurrezione sì e 
della risurrezione no, che fungono da estremi, c'è la storia di Israele che ha 
di fronte a sé sia il dono della terra, della libertà, della fede e della vita 
sia l'esperienza dell'esilio, della schiavitù, del peccato e della morte.
Ma le figure usate diventano segno di una vicenda più radicale e generale in cui 
siamo tutti coinvolti. Da un lato, c'è la morte, coi defunti nelle loro tombe, 
ridotti a spettri, immersi nella polvere dell'oblio. D'altro lato, si ha 
l'irruzione del Dio della vita. È lui che fa crescere i popoli col dono della 
fecondità, ma è ancora lui che fa balenare un'ulteriore possibilità, quella di 
far fiorire la vita dalla stessa morte. È il tema del citato versetto 19 che è 
stato definito come "un apice poetico e teologico dell'Antico Testamento" (Luis 
Alonso Schökel) proprio per la sorpresa che introduce.
I metîm, i "morti" dell'apertura del canto, i refa'îm, le "ombre", che si 
presentavano nel loro truce e cupo aspetto di defunti per sempre, di nuovo 
ritornano alla vita. La terra che prima era un sepolcro che inghiottiva e 
polverizzava il vivente ora si trasforma nella madre terra. Al grembo-tomba 
della scena precedente si sostituisce un grembo vitale e fecondo.
Sulle ossa degli scheletri e sulla polvere della carne dissolta scende una tal 'ôrot, 
letteralmente una "rugiada di luci": essa rivitalizza quella terra che era stata 
divoratrice delle creature viventi perché è talleka, è "la tua rugiada", cioè il 
principio di vita effuso dal Creatore. Acqua (rugiada) e luce sono simboli 
divini che vengono effusi sulla nostra mortalità per aprirla alla vita. Nella 
scena, già evocata, del libro del profeta Ezechiele era lo spirito di Dio che 
passava attraverso gli scheletri calcificati per farli rivivere: "guardai ed 
ecco sopra di essi tendersi i nervi, la carne cresceva e la pelle li ricopriva; 
lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi" (37, 
8.10). Ma allarghiamo ora lo sguardo della nostra riflessione lungo l'intero 
arco delle Scritture Sacre.
Môt tamût, "certamente morrai!": questa gelida parola di Dio risuona fin dalle 
prime righe della Bibbia (Genesi, 2, 16). La morte fisica è il segno del limite 
della creatura, anzi, è anche un grande simbolo che unisce in sé tante altre 
morti dell'uomo, quelle del peccato, della solitudine, della miseria, della 
violenza. Della morte sono striate quasi tutte le pagine della Bibbia proprio 
perché essa presenta una Rivelazione legata alla storia dell'umanità: l'intera 
Scrittura sembra convergere verso una morte suprema, quella di Cristo sul colle 
gerosolimitano detto "Cranio", in aramaico Golgota. È proprio lassù lo 
spartiacque tra una morte che è solo fine e tragedia e una morte che è transito, 
soglia verso una nuova vita. Come si è detto, per molti uomini e donne del Primo 
Testamento la morte aveva come foce ultima il silenzio dello Sheol, gli inferi: 
"In pochi palmi hai misurato i miei giorni e la mia durata davanti a te è un 
nulla. Solo un soffio è ogni uomo che vive, come un'ombra è l'uomo che passa Tu, 
Signore, fai ritornare l'uomo in polvere. Lo annienti, lo sommergi nel sonno, è 
come l'erba che germoglia al mattino: all'alba fiorisce, germoglia, alla sera è 
falciata e secca" (Salmi, 39, 6-7; 90, 3, 5-6).
È questa l'aspra convinzione anche di molti uomini e donne del nostro tempo che 
ripetono ironicamente col poeta Giorgio Caproni: "Se ne dicono tante. / Si dice, 
anche, / che la morte è un trapasso. / (Certo: dal sangue al sasso)" ("Cianfrogna", 
in Il franco cacciatore). Anche Jago nell'Otello di Verdi (su libretto di Arrigo 
Boito) gridava: "La morte è il nulla / e vecchia fola il Ciel!".
Ora, Isaia col suo sguardo profetico vuole perforare quel manto funebre che 
ricopre la morte e lo fa nei due versetti, sia pur ancora esitanti, appena 
letti. Con lui altre figure, come alcuni oranti del Salterio (Salmi, 16; 49; 
73), fissano lo sguardo verso quella meta, consapevoli come scriveva in una 
lettera il poeta austriaco Rainer Maria Rilke che "la morte è il lato della vita 
rivolto altrove da noi, non illuminato da noi". Ecco la voce di quei salmisti: 
"Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda 
la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita (...) Certo, Dio riscatterà la 
mia vita, mi strapperà dalla mano degli inferi (...) Mi guiderai secondo i tuoi 
disegni e poi mi accoglierai nella gloria" (Salmi, 16, 10-11; 49, 16; 73, 24). È 
là che si deposita quella "rugiada di luci", capace di ridonare vita alla nostra 
cenere mortale.
Questo aprirsi della soglia della morte su un nuovo orizzonte oltremondano 
luminoso era già balenato con la figura di Enok che, durante la sua lunga vita, 
"camminò con Dio e poi scomparve perché Dio l'aveva preso" (Genesi, 5, 24). Il 
verbo ebraico lqh, che è reso di solito con "essere preso", significa appunto 
l'assunzione del giusto in Dio dopo la sua morte. Colui che è in comunione col 
Signore nella giustizia già durante l'esistenza terrena, nell'istante della 
morte, viene "attratto" nell'eternità divina. È ciò che accade anche al profeta 
Elia che "viene preso" (lqh) mentre sta camminando col suo discepolo Eliseo: 
"Ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco che s'interposero fra loro due, ed 
Elia salì nel turbine verso il cielo" (II Re, 2, 10-11).
Il segno dell'ascensione, come avverrà per Cristo, è il modo per esprimere 
l'ingresso nell'eternità e nell'infinito di Dio. Come scrive Benedetto XVI a 
proposito del Gesù dell'ascensione, "egli ora è "innalzato" e questo implica un 
nuovo modo della sua presenza, che non si può più perdere (...) L'ascensione non 
è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma è la vicinanza permanente", 
fondata appunto sull'infinito e sull'eterno che trascendono e inglobano lo 
spazio e il tempo.
Tutto l'annuncio cristiano converge verso quell'irruzione di luce e di vita, 
portata a noi da Colui che ha conosciuto nella sua carne il morire ma che in sé 
ha lo spirito divino, essendo il Verbo nel quale "è la vita e la vita è la luce 
degli uomini" (Giovanni, 1, 4). Per questo, Cristo è "il primogenito di coloro 
che risuscitano dai morti" (Colossesi, 1, 18; cfr. Apocalisse, 1, 5). Egli, 
infatti, risuscitato dai morti, è "primizia di coloro che sono morti" (1 
Corinzi, 15, 20) per condurli alla vita. È lui che attua in modo efficace quell'annunzio 
isaiano risuonato sul colle di Sion: "eliminerà la morte per sempre" (Isaia, 25, 
8). È lui che spande quella "rugiada di luci" che ha in sé la potenza di far 
rivivere i cadaveri nella gloria finale quando "Dio sarà tutto in tutti" (1 
Corinzi, 15, 28), in un unico abbraccio di eternità. La morte non perde tutto il 
suo volto tenebroso, sperimentato dallo stesso Cristo, quel volto che essa 
rivela al primo impatto e che nell'agonia ci rende simili alla partoriente che 
si contorce non per donare un'altra vita ma per esalare la propria vita. 
Tuttavia dobbiamo avviarci verso quella meta, che ha per ciascuno una data 
idealmente già incisa sulla fronte, stringendo in mano la promessa divina 
presente nelle pagine di Isaia e lasciando spazio al calore della fede pasquale.
Gli autori spirituali hanno scritto opere intere per "apparecchiarci alla morte" 
(celebre è l'Apparecchio alla morte che sant'Alfonso Maria de' Liguori compose 
nel 1758). Ora noi non ne possiamo estrarre il succo, ma non è neppure 
necessario, perché basterebbe aggrapparci alla parola di Dio che abbiamo 
sintetizzato in modo sommario e che meriterebbe un più ampio approfondimento.
Per usare una battuta, potremmo auspicare a noi quello che Petrarca, nella 
diciassettesima Lettera senile, scriveva a Boccaccio: "Spero che la morte mi 
colga, se a Cristo piacerà, mentre prego e piango".

