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		21/12/2010 ● Cultura
La precarietà giovanile e la nuova dimensione del tempo
 Pietro Di Tomaso ● 1650
  Pietro Di Tomaso ● 1650 
        
        Una società che non ama i suoi giovani è una società che non ama il futuro. I 
giovani oggi rappresentano una categoria tenuta “fuori dai giochi”, una risorsa 
preziosa della società lasciata senza voce, ignorata da una generazione adulta 
come quella attuale un po’ (molto?) egoista e autoreferenziale. La sfiducia dei 
giovani è un sintomo di una crisi non tanto “esistenziale” quanto “culturale”, 
da riferirsi al fatto che la nostra cultura conosce come unico generatore 
simbolico di tutti i valori esclusivamente il denaro, da conseguire con ogni 
mezzo, ivi compresa la condizione del “prendere o lasciare” in mancanza di 
potere contrattuale. Perché – come osserva Umberto Galimberti, docente presso 
l’università ‘Ca Foscari’ di Venezia - chi non è “mezzo di profitto”, sia che si 
tratti dell’immigrato o di uno qualunque di noi che lavora in una fabbrica o in 
un ufficio a qualsiasi condizione gli venga imposta, non ha diritto di 
cittadinanza. E tutto questo perché l’economia globalizzata ha reso 
concorrenziale anche il costo del lavoro sempre più al ribasso.
Ciò detto, dove volge lo sguardo dei governanti? Della mancanza di futuro dei 
giovani al momento si occupano in pochi e ai problemi del nuovo sistema 
produttivo-contrattuale vengono dedicati studi approfonditi da parte degli 
esperti (vedi l’economista Tito Boeri e il giuslavorista Pietro Ichino, per 
citare), ma rimangono confinati nell’ambito degli addetti ai lavori. Poi c’è il 
grande problema dei ricercatori italiani costretti ad espatriare per mancanza di 
prospettive in Italia.
Ignazio Marino – medico e senatore – denuncia che “la straordinaria carenza 
di finanziamenti riflette la scarsa importanza che da noi si dà alla ricerca 
come strategia dello sviluppo di tutta la società”. In America, dove non 
solo la ricchezza ma anche la crisi è assai più grande che da noi, nel 2011 
saranno spesi in ricerca 30 miliardi di dollari (25 miliardi di euro) pari alla 
nostra intera manovra finanziaria. Molti studenti italiani pensano che tutta la 
politica di questo governo sia premeditatamente rivolta a impoverire 
l’istruzione pubblica per favorire quella privata e che la mancanza di 
programmazione nell’insegnamento pubblico equivalga ad ammazzarlo. Così 
l’istruzione tornerà privilegio di ceto (in barba alla nostra Costituzione 
vigente). La rivolta di gran parte dei giovani è dunque una ribellione anche di 
carattere sociale e nasce da un disagio reale (molti di essi sono stati definiti 
come appartenenti alla “web class” e sono al penultimo posto in Europa per 
garanzie di occupazione). Ai giovani – secondo il filosofo Giacomo Marramao – è 
stata tolta la dimensione del tempo storico lineare garantito. Con la 
conseguenza che ogni atto che cada come sale sulla loro ferita crea quella che 
Machiavelli chiama l’ “occasione” e i greci avevano chiamato ‘kairòs’: la nuova 
dimensione del tempo, sussultorio, violento, che altera i comportamenti 
individuali normali, trasformandoli in rabbia, rottura, come ha fatto la fiducia 
al governo, piovuta nel mezzo della protesta anti-Gelmini. Naturalmente è anche 
un problema di classe dirigente. “Francamente non si capisce perché - 
sottolinea Federico Orlando (Europa, 18 dicembre) – non solo il PD ma tutte 
le opposizioni non abbiano chiesto… almeno una pausa di riflessione sulla 
riforma, sollecitandone il rinvio di qualche settimana; e non si capisce perché 
rettori docenti ricercatori precari studenti non abbiano promosso per tempo una 
conferenza nazionale dell’università, per avanzare un’autonoma proposta di 
riforma. Eppure, in tutti i rami dello studio, ci sono nelle università punte di 
altissimo valore”. E’ sperabile pertanto che in futuro ci si coordini 
meglio.
Tornando ora al tema della precarietà, in termini più generali, trovo pertinente 
chiedersi: come si fa, oggi, a rimettere al centro l’uomo e non solo il 
profitto? L’indicazione del filosofo Franco Totaro in ‘Non di solo lavoro’ è 
quella di cambiare i profili lavorativi, pensando non solo al lavoro come 
“produzione”, ma anche e soprattutto al lavoro come “servizio”, di cui la nostra 
società sente un gran bisogno, a giudicare dal gran numero di persone che si 
dedicano all’assistenza e al volontariato. Si tratta di profili lavorativi che 
potrebbero trovare non solo una massiccia domanda, ma anche un significativo 
riconoscimento finanziario, se l’economia non pensasse solo alla produzione, ma 
anche ai servizi per la persona e alle relazioni tra le persone. In questo 
scenario forse viene prefigurato anche il segreto di una maggiore felicità 
sociale, che certamente non è data dall’ultima generazione di automobili o di 
telefonini, come la pubblicità cerca di farci credere. Infatti tra i 
pubblicitari nessuno desidera la nostra felicità, perché la gente felice non 
consuma.
