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		25/4/2013 ● Cultura
Il milite ignoto [I parte]
 Giorgio Senese ● 2060
  Giorgio Senese ● 2060 
        
        “Ce lo diranno domani dove dovremo andare!†così aveva detto il 
sergente Graziani.
Il tono era di chi non si aspettava repliche, ma nello stesso tempo, condivideva 
l’ansia e i timori di chi lo ascoltava.
Eravamo quasi tutti della classe 21, volontari, soprattutto del sud e tutti 
orgogliosi di vestire la divisa italiana e di appartenere all’ 81° Reggimento di 
fanteria della gloriosa divisione “Torinoâ€.
Non vedevamo l’ora di dimostrare il nostro valore sul campo di battaglia e 
magari, con un po’ di fortuna, tornare a casa con qualche medaglia appuntata sul 
petto da mostrare ai parenti e sfoggiare con le ragazze.
Fin da piccoli eravamo stati educati all’ardimento e all’eroismo che supera 
anche la morte continuando a vivere nella memoria dei vivi.
La guerra, inoltre, rappresentava in qualche modo anche l’affrancamento dalla 
condizione di “guajonâ€, di ragazzo, per diventare a pieno titolo uomini.
Una sorta di passaggio iniziatico tra l’età adolescenziale e quella adulta pur 
nella consapevolezza che, per alcuni di noi, sarebbe stato un passaggio senza 
arrivo.
Il Sergente Graziani aveva combattuto sul fronte francese col genio a costruire 
ponti a secco e sui corsi d’acqua. Era dunque un “vecioâ€a cui portare rispetto e 
obbedienza.
Proveniva da Littoria, una nuova città voluta da Mussolini e sorta lì dove prima 
c’era una palude prosciugata dalla ferrea volontà del nostro Duce ed il lavoro 
di migliaia di braccia.
Molte di esse rimasero nel fango inghiottite dalla malaria ma l’opera grandiosa 
si fece.
Nelle camerate si diceva che la sua era una famiglia fascista della prima ora.
Avevano addirittura sostituito il cognome originario da Falconi a Graziani, per 
onorare appunto il grande generale fascista Rodolfo Graziani eroe di Etiopia e 
Abissinia.
Qualcuno affermava che lo stesso generale stesso, venuto a conoscenza della 
cosa, avesse appuntato una medaglia d’oro sul bavero della veste di mamma 
Felicia che della operazione, era stata promotrice.
Nei momenti di riposo al Graziani piaceva mettersi seduto in disparte.
Puntava il gomito sulla gamba e roteando a ricciolo il pollice e l’indice 
prendeva a tormentare il biondo pizzetto che si era lasciato crescere.
Fissava un punto lontano e ti accorgevi che partiva per luoghi e situazioni 
sconosciute.
Rimaneva in questo stato, fino a quando veniva richiamato da qualcuno, alla 
realtà.
Aveva avuto modo di conoscermi bene e aveva apprezzato il mio impegno, in 
occasione delle esercitazioni fatte prima sui battelli in Adige e poi nel 
costruire le tende da campo a Civitavecchia.
Il nostro plotone di genieri era risultato tra i più bravi e mi ero così 
guadagnato la sua stima.
Ero spesso a chiedergli permessi, permessini, licenze o cambiamenti nei turni di 
guardia e ricambiavo la sua benevolenza sbrigando per suo conto delle piccole 
faccende.
Gli ritiravo la posta, gli facevo trovare il giornale ogni mattina sul tavolo in 
mensa sottufficiali, gli compravo le sigarette allo spaccio ecc.
Quando arrivava il pacco di cosa buone da casa mia, gli regalavo i fichi secchi 
piuttosto che i sottaceti con gli asparagi selvatici che faceva mia madre e che 
a lui, tanto piacevano.
In tutto questo, devo essere sincero, c’era un mio tornaconto.
Avevo bisogno di lui per riuscire a frequentare una ragazza.
I genitori della mia Miryam erano dei borghesi benestanti, il padre lavorava in 
banca e non approvavano che la loro figlia uscisse con un soldato semplice e per 
giunta del sud.
Non si poteva biasimarli, i tempi erano quelli che erano e fare progetti con uno 
che oggi c’è e domani non si sa, era alquanto azzardato.
Non sapevano fino a che punto io amassi la loro figliola, ma speravo si 
presentasse un giorno, l’occasione per dimostrarglielo.
Da noi in paese l’onore e la serietà sono valori su cui non si transige e sono 
la bussola per le scelte nella vita, sempre e ovunque.
“A faccia ‘mbaccia!â€, il bene prezioso di chi non possiede nient’altro 
oltre la propria dignità, davanti a Dio e davanti agli uomini. 
Potevo essere deriso per il mio pessimo italiano, ma nessuno poteva mettere in 
dubbio la mia dirittura morale. 
L’avevo conosciuta tramite sua cugina Ester che lavorava, tra il personale 
civile del centralino accanto alla fureria.
Era lei il tramite e la complice del nostro amore.
Il momento della giornata più propizio era il termine delle sue lezioni di 
pianoforte al Conservatorio perché doveva aspettare l’autobus e, un eventuale 
ritardo era giustificato.
Ester veniva sempre informata da Miryam sugli orari dei corsi che venivano 
spesso spostati o anticipati secondo le esigenze dei professori.
Quindi chiedevo il permesso di uscire al mio sergente che in base alle esigenze 
di servizio lo concedeva o meno.
Incontravo Miryam sotto il grande portone del Portico di Ottavia, vicino 
all’isola Tiberina e vicino, ma non troppo, da casa sua.
Sua cugina Ester a cui era molto legata anche da profonda amicizia, era una 
donna già sulla trentina, che di sposarsi non aveva nessuna intenzione.
Era per questo la pecora nera della famiglia e la disperazione di sua madre che 
avrebbe voluto vederla sistemata con marito e figli.
Da tempo, grazie al suo lavoro, si era resa completamente indipendente.
Era una donna molto brillante e di buona conversazione.
Viveva sola in un piccolo appartamento anche se riceveva speso amici e 
conoscenti.
Mi presentò Miryam in un locale dove era solita ritrovarsi tra amici.
Io mi trovavo lì a seguito di alcuni commilitoni che conoscevano il posto.
Lei mi colpì subito e messo da parte il mio imbarazzo lessicale presi a 
dialogare con lei.
Senza rendercene conto, presi dalla voglia di conoscerci, ci isolammo dal resto 
del gruppo.
Nel locale era entrato un gruppo di soldati tedeschi che goliardicamente 
creavano gran confusione e ammorbavano l’aria con il fumo delle loro sigarette 
puzzolenti.
Uscimmo all’aria aperta e passeggiammo sul lungo Tevere.
Brevemente avemmo così modo di presentare l’uno all’altra le nostre vite.
Ad un certo punto mi chiese scusa e andò via, con la promessa che ci saremmo 
rivisti.
Era di venerdì sera e cominciava per lei, quella che per noi è la giornata di 
domenica che si va in chiesa. Per questo la famiglia tutta si raccoglieva ed era 
opportuno che tornasse a casa.
Era di fede ebraica e aveva tradizioni diverse dalle mie ma questo per me, non 
era che un dettaglio. 
Miryan era esile ma tutta la figura era aggraziata, con lucenti capelli neri 
portati a caschetto.
Aveva occhi di smeraldo che cercavano senza sosta i miei e questo m’impediva 
anche la più piccola delle bugie. 
Con lei mi ero sentito da subito a mio agio, starle accanto era per me era la 
cosa più naturale del mondo.
Il suo basso tono di voce mi costringeva ad avvicinarmi per meglio ascoltarla e 
quando sentivo il profumo della sua pelle,… come resistere a non baciarla?
Divenne il centro dei miei pensieri, l’oggetto del mio primo e unico amore.
Per un ragazzo come me, cresciuto in una terra povera e desolata come quella 
molisana e scaraventato dagli eventi in quella grande città, lei rappresentava 
una bellissima opportunità su cui scommettere tutta la vita.
Credetemi, del Portico di Ottavia conosco ogni pietra, ogni crepa e lui ogni 
battito del mio cuore nell’attesa del mio amore. 
Eravamo ormai alla fine di giugno e in caserma da giorni c’era un gran via vai 
di uomini e mezzi.
Il mio sergente era molto occupato in fureria a seguire atti amministrativi 
delle nuove truppe che si erano aggregate a noi ed entrava e uscita dal salone 
dove il comandante di reggimento ufficiava il gran rapporto permanente da lui 
stesso richiesto.
Lo vedevamo solo il tempo necessario per la rivista giornaliera e le 
comunicazioni degli ordini.
Erano rientrati molti veterani dalla sicilia, provenienti dalla Jugoslavia. 
Altri della “Centauro†si erano aggiunti di rientro dall’Albania.
Tutta la caserma era un ribollire di uomini mezzi.
Nei magazzini si selezionavano e accatastavano indumenti e materiali vari per le 
truppe autotrasportate.
Nelle scuderie si ferravano le bestie e si preparavano basti e finimenti.
La mattina del 30 giugno, sul piazzale della caserma, invece di assegnarci al 
solito gli ordini di giornata, continuava ad andare avanti e indietro con gli 
occhi sulla punta dei suoi stivali e tormentando il famoso pizzetto biondo.
Poi si fermò, alzò lo sguardo e ci guardò in silenzio uno per uno.
Il toro rampante sulla bandiera dietro le sue spalle, sembrava saltellasse sulle 
zampe posteriori a ogni folata di vento.
Tommasi, il mio compagno di branda che si trovava in fila dietro di me, mi toccò 
piano la schiena con il calcio del fucile e sottovoce propose “Sveglialo…al 
solito è partito per chissà dove?
