BLOG FONDATO NEL GIUGNO DEL 2000
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Un viaggio nella cultura non ha alcuna meta: la Bellezza genera sensibilità alla consapevolezza.

Luigi Sorella (blogger).
Nato nel 1968.

Operatore con esperienze professionali (web designer, copywriter, direttore di collana editoriale, videomaker, fotografia digitale professionale, graphic developer), dal 2000 è attivo nel campo dell'innovazione, nella comunicazione, nell'informazione e nella divulgazione (impaginazioni d'arte per libri, cataloghi, opuscoli, allestimenti, grafiche etc.) delle soluzioni digitali, della rete, della stampa, della progettazione multimediale, della programmazione, della gestione web e della video-fotografia. Svolge la sua attività professionale presso la ditta ARS idea studio di Guglionesi.

Come operatore con esperienza professionale e qualificata per la progettazione e la gestione informatica su piattaforme digtiali è in possesso delle certificazioni European Informatics Passport.

Il 10 giugno del 2000 fonda il blog FUORI PORTA WEB, tra i primi blog fondati in Italia (circa 3.200.000 visualizzazioni/letture, cfr link).
Le divulgazioni del blog, a carattere culturale nonché editoriale, sono state riprese e citate da pubblicazioni internazionali.

Ha pubblicato libri di varia saggistica divulgativa, collaborando a numerose iniziative culturali.

"E Luigi svela, così, l'irresistibile follia interiore per l'alma terra dei padri sacra e santa." Vincenzo Di Sabato

Per ulteriori informazioni   LUIGI SORELLA


24/12/2009 ● Internet

Siamo da dove veniamo


  Giorgio Senese ● 1616


L’intensità del senso di appartenenza al proprio paese e alla sua comunità è qualcosa che dipende anche dalle distanze. Non voglio dire che è qualcosa di misurabile in metri ,ma l’attaccamento alla propria identità territoriale e culturale si pone, stranamente, in un rapporto inversamente proporzionale alla distanza da essa.
Altrimenti non si spiegherebbe come i nostri concittadini all’esterno, possano conservare un fortissimo legame che li porta in qualche misura, anche a mitizzare ricordi, situazioni e relazioni umane in modo non sempre rispondente alla realtà.
Qualche anno fa, mi è accaduta una cosa stranissima che vi voglio raccontare e che rafforza questa mia teoria e mi induce, ancora una volta, a meditare sulla complessità del genere umano quando si analizzano i rapporti interpersonali.
Una mattina, mi trovano di passaggio a Perugia durante una delle mie frequenti visite ad Assisi che considero la mia seconda casa. Passeggiavo nel centro con il naso all’insù ad ammirare gli edifici storici quando inaspettatamente, mi sono sentito chiamare ed abbassando lo sguardo ho riconosciuto un volto sorridente e familiare.
Era una ragazza di Guglionesi che era lì per studio ed è stato spontaneo per entrambi salutarci calorosamente con un abbraccio ed un bacio. Per tutta la mattinata siamo stati insieme a passeggiare e a discorrere circa la nostra vita, dei nostri sentimenti, delle aspettative, delle ansie e delle paure che bisogna affrontare con coraggio man mano che ci si presentano.
Insomma, tutto ciò che si fa tra amici che si vogliono bene e stanno bene insieme.
Dopo aver bevuto una cioccolata calda in un bar ci siamo, a malincuore, congedati dandoci appuntamento a Guglionesi.
Direte voi, embè!.. che c’è di strano? La stranezza risiede nel fatto che quella ragazza io la conoscevo solo di vista, non avevo mai desiderato o avuto modo di parlarci e se non ci fossimo trovati in quelle particolari condizioni di lontananza dal nostro paese, sono certo che non avremmo mai vissuto un simile momento.
La prova ulteriore sta nel fatto che a Guglionesi non ci siamo mai più incontrati né ricercati: non c’era l’esigenza.
Quello dell’appartenenza credo sia un vero e proprio sentimento innato, del quale io ho fatto esperienza fin da bambino.
Vi racconto a tal proposito un episodio della mia infanzia di cui solo con la maturità mi sono reso conto.
Era circa il 1971 e mi trovavo a fare un campo scout regionale a Riccia.
La mia partecipazione era passata attraverso la scuola elementare di Guglionesi nella persona del mio caro maestro Francesco Del Torto.
Eravamo ospiti in un grande edificio situato all’interno dello stupendo bosco di latifoglie e gestito con polso fermo da una decina di suore.
I nostri istruttori non avevano voce in capitolo se non quando eravamo fuori in escursione, in casa chi comandava erano le suore.
C’erano due enormi camerate di almeno una trentina di letti ciascuna e la disciplina che scandiva i vari momenti della giornata era assolutamente da caserma.
Pensate che per farci il bagno ci mettevano in fila nudi in mezzo alla camerata e uno alla volta venivamo brevemente, ma energicamente, strigliati dentro una tinozza di metallo.
Subito dopo, come in una catena di montaggio, ci asciugavano con due manate sull’asciugamano in cui ci avvolgevano e dovevamo correre al nostro posto letto dove preventivamente avevamo disposto con cura i nostri indumenti puliti a partire da quelli intimi.
Avevo dieci anni, non mi faceva paura nulla e non ero esattamente un bravo ragazzo.
Con me c’era un bambino del mio stesso paese che nonostante avesse circa la mia stessa età era piccolo di statura, gracile, con la pelle più scura del normale ed un’indole sciaguratamente docile e remissiva.
La nostalgia per la mamma lo faceva piangere tutte le notti e faceva la pipì a letto.
Con la crudeltà di cui solo i bambini sono capaci, veniva preso in giro da tutti sia con parole offensive che con stupidi scherzi di scherno.
Avevo il mio da fare a ristabilire continuamente le condizioni di rispetto e di correttezza nei suoi confronti.
Diciamo, per capirci, che non passava giorno che non mi scazzottassi con qualcuno. Infatti, proprio durante una di queste zuffe, accadde che feci uscire il sangue dal naso ad un bambino termolese, grasso, viziato, sbruffone e figlio di papà che, alla vista del suo sangue si spaventò tanto che urlando prese a correre ed incespicò ruzzolando malamente giù per una piccola scarpata tra i rovi. Si ruppe un braccio.
Le suore dovettero avvisare i genitori che arrivarono con un’automobile scura di forma tondeggiante e se lo portarono via per non tornare più.
Dai salamelecchi che fecero alla coppia capii che doveva essere gente importante e distinta, lui aveva un cappello nero a falde larghe e lei indossava la pelliccia.
Dalle religiose l’episodio fu vissuto con grande imbarazzo ed io venni chiuso dentro una stanza a scontare la punizione che consisteva nel restare un giorno senza mangiare e senza poter uscire.
Grazie al fatto che ero magro scappai dalla finestra passando nello spazio tra le inferriate e quel giorno stetti nel bosco a caccia di lucertole, ramarri e serpenti, lontano dagli altri ma attento a non smarrirmi. Rientrai solo la sera all’ora di cena.
Il giorno successivo, a pranzo, le suore si presero la rivincita e fui io stesso causa del mio male perchè a gran voce, mi rifiutai di mangiare il minestrone.
Allora mi afferrarono in due e me lo fecero mangiare a forza usando una tecnica che evidentemente avevano ben collaudato. Una mi teneva ferme le braccia da dietro mentre l’altra mi imboccava con grosse cucchiaiate tenendomi contemporaneamente serrato il naso tra le sue dita.
Non c’era scampo, dopo ogni boccone, per poter respirare, ero obbligato a deglutire la brodaglia.
Ebbene, nella particolare condizione di lontananza da casa mia, quel bambino rappresentava la mia famiglia, le mie radici ed anche la mia dignità.
Io gli volevo bene e come suo amico e compaesano mi sentivo naturalmente in dovere di proteggerlo in un posto così lontano da casa nostra.
Conoscevo la sua situazione familiare che era disastrosa in quanto non aveva il papà, la madre era senza lavoro e con altri fratelli più grandi di lui da portare avanti
In definitiva lui non era una cosa diversa da me stesso e difendendo lui io difendevo la mia “Patria lontana”.
Vivendo stabilmente a Guglionesi non ho più avuto modo di provare un sentimento simile ma è rimasto bellissimo ed indelebile nella mia mente poiché è uno di quelli che io classifico fondamentale come lo sono l’amore per la vita, per i genitori e familiari, per la propria moglie e per i propri figli.
L’invadenza subdola delle nuove tecnologie che si insinua nelle nostre vite ci rende cittadini del mondo navigando per l’intero pianeta e ci sentiamo provinciali all’idea di spenderci per il nostro piccolo paese, ma è un errore, perché noi siamo figli di questa nostra terra, della gente che la abita ed eredi di quella che ci ha preceduti.
Concludo queste riflessioni lasciandovi i miei migliori auguri per Natale, un grande abbraccio a chi è lontano sia fisicamente che spiritualmente e, per chi può, un invito a vivere tutti i momenti che saranno proposti nel periodo, sia religiosi che civili perché noi apparteniamo a questa storia, questo paese è casa nostra.
Il paese siamo noi.





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