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		2/4/2011 ● Cultura
Era di Aprile... 2011
  Giorgio Senese ● 2605 
        
        

La memoria del giusto è in benedizione, il nome degli empi svanisce. (Prov.10,7)
Oggi lo chiameremo “headquarters” o, volendo rimanere nei nostri 
confini linguistici, quartier generale.
Noi lo chiamavamo “u pajarill”.
Erano dei ricoveri fatti con cartoni, tavole, paglia e quant’ altro si riusciva 
a trovare e riutilizzare dagli immondezzai a cielo aperto che negli anni 70 si 
irraggiavano dalla periferia e scendevano lungo le pendici della nostra collina.
Per quanto io mi ricordi avevamo, situati in diversi punti del paese vari 
letamai : uno al vecchio scannaggio dove andavo a raccogliere i teschi 
con le corna per “studiarle”, un altro al quartiere Sant’antun, un altro 
al municipio, un altro a i mur, un altro a castellara, un 
altro a petticece/fontenuova ed un altro di materiali marmorei di 
risulta, di fronte alla vecchia pteca del compianto Mimì.
Gli odori che si sprigionavano da questi posti segnavano l’andare delle stagioni 
per cui se sentivi la puzza pungente dei pomodori marci, quella alcolica delle 
vinacce o quella acida delle acque nere dei frantoi, non potevi sbagliarti sul 
periodo dell’anno in cui ti trovavi.
U pajarill si ricostruiva o ristrutturava ogni anno con l’arrivo della 
primavera.
I criteri di progettazione e costruzione rispondevano a necessitĂ  di tipo 
pseudo-militaresche.
La cosa piĂą importante era la scelta della sua ubicazione.
Esso doveva soddisfare due requisiti: essere nascosto e facilmente difendibile.
Fatto il quartier generale bisognava creare la banda.
Ogni componente prestava solenne giuramento dichiarando che mai, anche a costo 
della vita, ne avrebbe svelato la posizione. Né ai genitori, né ai nemici.
Quest’impegno si prendeva alla presenza di tutti i componenti e il segno 
dell’avvenuto giuramento era una croce nella parte interna del polso destro 
realizzata mediante bruciatura chimica provocata dai ripetuti passaggi del 
peduncolo di un fico acerbo, staccato dall’albero al momento e usato come una 
matita per piĂą giorni.
Il suo latte caustico bruciava la pelle realizzando la croce tatuata.
Anche se abitavo in via Capitano Verri, io stavo sempre con i miei cugini a 
Sant’antun ed appartenevo, quindi, a quella banda.
Il nostro pajarill si trovava abball pi morgl cioè dietro la 
chiesa di S.Antonio Abate, sotto lo zoccolo di tufo su cui poggia il paese, ad 
un dislivello di circa 25 metri rispetto alla chiesa.
Era strategico in quanto era stato costruito in un campo abbandonato, sotto un 
caprifico di dimensioni modeste ma con i rami molto bassi, sufficienti per la 
mimetizzazione. Anche la posizione altimetrica era stata attentamente valutata.
Si trovava piĂą in alto rispetto al punto da cui avrebbe potuto attaccarci 
improvvisamente la confinante banda di mur.
Questa banda sempre nemica nei nostri confronti avrebbe potuto attaccarci 
passando di nascosto attraverso il bosco rigoglioso di acacie spinose che 
esisteva sotto il portello, oltrepassando il ruscello (liquidi percolanti 
dall’immondezzaio del municipio) e costeggiando la fratta di jejer 
(giuggiole) per poi sbucare urlante a qualche decina di metri dal nostro 
accampamento.
Le incursioni erano sempre possibili e l’obiettivo era la distruzione del 
pajarill, il furto delle suppellettili (qualche seggiola rotta) e delle armi 
(archi, frecce e fionde) nonché l’eventuale sequestro a scopo di riscatto di 
qualche membro della banda.
Ricordo la volta in cui mio cugino Lino, che purtroppo non è più con noi, venne 
sequestrato. I suoi fratelli Giorgio e Enrico nostri comandanti, organizzarono 
una incursione per andare a riprendercelo con la forza. Quando arrivammo di 
soppiatto al pajarill di mur lo trovammo legato ad un albero.
La battaglia fu grande, ricordo di aver dato e ricevuto tante di quelle botte 
che per una settimana mi sono sentito rotto. Qualche bambino è tornato a casa 
anche con la testa rotta ma allora nessun genitore ne faceva una tragedia o ti 
denunciava come oggi.
C’è da dire però che l’obiettivo era stato raggiunto: Lino era stato liberato e 
il pajarill nemico distrutto.
Anche il nostro, come ogni esercito che si rispetti, aveva i propri comandanti 
(Giorgio ed Enrico i miei cugini gemelli, i piĂą grandi), le guardie per i turni 
di guardia al pajarill ed i soldati che si aggiungevano o si cambiavano di volta 
in volta. 
Avevamo anche i traditori e la loro vita era davvero dura perchè, cadendo in 
disgrazia, venivano esclusi dai giochi . Chi si trovava in questa condizione si 
prodigava in tutti i modi per recuperare di credibilitĂ , fino a quando i nostri 
comandanti convinti della buona fede, ne dichiaravano ufficialmente la 
reimmissione nella banda. C’erano anche quelli votati alle imprese più assurde e 
pericolose ed io ero uno di quelli. Non per niente in quell’età mi sono rotto 
piĂą volte le ossa ed ho anche rischiato la vita in imprese folli come il 
gettarmi dalla rupe, sollecitato dai miei cugini, con una incerata trovata dopo 
il mercato settimanale che mi facesse da paracadute.
- “Vedrai, il paracadute ti farà atterrare piano piano”.
La mia fortuna fu la montagna di letame che trovai alla fine del salto, ne uscii 
non proprio profumato ma, illeso.
Ma... tant’è, le condizioni socio culturali erano quelle.
Verrebbe da dire che questa mia infanzia “naif” sia da augurare ad ogni bambino 
ma volendo meglio analizzare la questione credo si possa definirla piĂą fortunata 
che bella. Non permetterei mai ad uno dei miei figli di farla.
Troppe sono state le occasioni in cui solo la fortuna non mi ha fatto cadere nel 
pozzo, rovinare dal muro scalando i ruderi del castello, uscire dal fuoco 
rimettendoci solo le scarpe, rompermi solo le braccia o le gambe, riprendere 
fiato all’ultimo istante dopo una caduta di schiena che mi aveva bloccato il 
respiro, essere tirato fuori per le gambe da un abbeveratoio dove ero caduto a 
testa in giĂą ed ero rimasto incastrato, essere sparato mentre rubavo le ciliegie 
dall’albero,essere schiacciato da una macchina mentre percorrevo la statale 
allungato sul mio carruccio a 10 centimetri dal suolo e per freno un 
pezzo di legno incernierato con un chiodo alla tavola.
L’ultima neve, pressato dai miei bambini che volevano uscire, li ho portati a 
fare una passeggiata dall’ufficio postale fino al portello attraversando i 
luoghi dove si è consumata la mia fanciullezza. Nulla è come prima, tutto è in 
abbandono , non ci sono piĂą i bambini che preparano le trappole con i 
cacchioli, non ho visto mio cugino Lino…, mio fratello Lino, ma sono sicuro 
che era li ,seduto da qualche parte che ci osservava mentre procedevamo 
barcollando nella neve.
Accanto a lui c’ero anch’io come non potrò mai più essere.
