BLOG FONDATO NEL GIUGNO DEL 2000
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Un viaggio nella cultura non ha alcuna meta: la Bellezza genera sensibilità alla consapevolezza.

Luigi Sorella (blogger).
Nato nel 1968.

Operatore con esperienze professionali (web designer, copywriter, direttore di collana editoriale, videomaker, fotografia digitale professionale, graphic developer), dal 2000 è attivo nel campo dell'innovazione, nella comunicazione, nell'informazione e nella divulgazione (impaginazioni d'arte per libri, cataloghi, opuscoli, allestimenti, grafiche etc.) delle soluzioni digitali, della rete, della stampa, della progettazione multimediale, della programmazione, della gestione web e della video-fotografia. Svolge la sua attività professionale presso la ditta ARS idea studio di Guglionesi.

Come operatore con esperienza professionale e qualificata per la progettazione e la gestione informatica su piattaforme digtiali è in possesso delle certificazioni European Informatics Passport.

Il 10 giugno del 2000 fonda il blog FUORI PORTA WEB, tra i primi blog fondati in Italia (circa 3.200.000 visualizzazioni/letture, cfr link).
Le divulgazioni del blog, a carattere culturale nonché editoriale, sono state riprese e citate da pubblicazioni internazionali.

Ha pubblicato libri di varia saggistica divulgativa, collaborando a numerose iniziative culturali.

"E Luigi svela, così, l'irresistibile follia interiore per l'alma terra dei padri sacra e santa." Vincenzo Di Sabato

Per ulteriori informazioni   LUIGI SORELLA


23/4/2012 ● Cultura

Giornata mondiale della lettura: "Tabacco americano" di D'Agata


  Redazione FPW ● 1660


Per la giornata mondiale del libro e del diritto d'autore (23 aprile) la redazione del blog di Fuoriportaweb propone la lettura del racconto "Tabacco Americano" di Giuseppe D'Agata (cfr sitweb www.giuseppedagata.it), recentemente scomparso, un racconto tratto da un suo libro abbastanza autobiografico (con molti riferimenti a Guglionesi), e dal titolo "I giorni della speranza" (Cappelli editore, Bologna, 1978).
Degli aspetti culturali del libro "I giorni della speranza" se ne parlò anche in un incontro culturale a Guglionesi con la presenza dell'autore Giuseppe D'Agata, incontro organizzato molti anni fa dall'Assessorato alla Cultura del Comune di Guglionesi.

"Ultimi anni della seconda guerra mondiale in Italia: gli alleati, la miseria, la liberazione: i primi “difetti” della nostra giovane democrazia, l’emigrazione. Insomma l’Italia degli anni quaranta e dei primi cinquanta interpretati da uno scrittore che sa cogliere con sottile ironia e con sicuro approfondimento psicologico le ripercussioni che gli eventi hanno sulla vita di tutti i giorni e sulla gente sotto tutte le latitudini del nostro paese. Una storia vissuta e da rivivere per conoscerci oggi e migliorarci domani. Un messaggio senza fronzoli per tornare… al futuro. (dalla quarta di copertina del libro)"

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TABACCO AMERICANO

Ogni pomeriggio tardi della buona stagione, Francì e gli altri vecchi siedono su un muretto a lato della strada, poco fuori paese. Conversano al tramonto, pacati; guardano la strada, salutano i cafoni che tornano coi muli dalla campagna.

Quel pomeriggio d'ottobre passavano sulla strada lunghe file di camion, e file di cannoni e altre macchine rumorose chiazzate di verde e giallo.

Sui camion stavano i soldati, e spesso nel passare davanti al muretto salutavano i vecchi con la mano.

Dalla mattina era incominciato il passaggio, e la strada ne recava i segni con due larghi solchi minutamente dentati; i cafoni e i muli, intimoriti, camminavano col piede proprio sul ciglio d'erba della cunetta affrettandosi appena la strada era libera: e presto alla curva in fondo compariva il muso piatto di un camion o la bocca di un cannone chiusa come da una museruola.

– Quanti ne sono! – commentavano i vecchi volgendosi alla curva. E annuivano, anche se non era più una novità a quell’ora.

– Sicché è finita la guerra. – «Sicché» dicevano, come per averne più convincimento, poiché per essi l'uscita dalla guerra non rappresentava un giorno decisivo, importante. Solo qualche anno in più sulle spalle era stata per essi la guerra. Il resto, più o meno uguale a prima: scarso lavoro, scarso mangiare, sedere sul muretto i pomeriggi della bella stagione.

Ora guardavano la «liberazione» tenendo le pipe strette fra le labbra. Parlavano nelle pause del passaggio.

– Quanti ne sono!

Un numero enorme, spropositato, rispetto a quei pochi tedeschi che s'erano visti in giro da quelle parti i giorni scorsi.

– Sicché è finita.

La guerra era passata senza una cannonata. Due giorni prima i tedeschi avevano sgomberato tutta la zona senza combattere; per un giorno intero non s'era visto nessun soldato, di nessuna specie, poi la mattina, precedute da un gran rombare, erano comparse alla curva della strada da Campobasso le macchine dalla pelle d'acciaio maculata. Poi i cannoni, i camion, cannoni ancora e ancora camion. E il passaggio durava ancora.

Parevano aver fretta quelle colonne, neanche una si fermava alle quattro case di G. Del resto G. non doveva essere importante per loro; anche i tedeschi non l'avevano giudicato paese importante.

– Quelli domani arrivano in alta Italia.

Qualche soldato salutava dai camion e gridava.

– Good by!

– Cu-bai! – rispondevano i vecchi. L'inglese, o meglio l'americano degli italiani del Bronx, era lingua di casa per essi, molti avevano parenti in America. Parecchi c'erano stati anche.

– Cu-bai! - salutava il vecchio Francì. – Ciriò!

Il sole, di poco più in alto della cima dei monti, tingeva di rosso le facce barbute dei vecchi e quelle pulite dei soldati. Rosse erano già molte foglie della campagna intorno.

Fu durante una pausa del passaggio che arrivarono correndo due ragazzini. Si fermarono eccitati davanti a Francì.

– Nonno, vieni!

– Vieni subito, nonno!

Il vecchio Francì guardò i nipoti severo e calmo.

– Che volete? – domandò.

I ragazzini non stavano fermi, indicavano un punto da dove erano venuti.

– Vieni! Ti cerca un soldato!

– A me?

– Sì, sì. Dice che è Ciccillo.

Tutti i vecchi si erano fatti attenti. Francì, sempre con calma, si alzò in piedi.

– Dove sta? – domandò.

– Si è fermato con gli altri nel piano del sellaio. Vieni subito!

E corsero via saltellando coi piedi scalzi fra i solchi della strada. Il vecchio Francì guardò gli amici e s'incamminò. Dietro di lui gli altri si alzarono e il muretto rimase sgombro.

Il cuore di Francì batteva regolare; il vecchio continuava a rispondere ai saluti dei soldati sui camion che intanto avevano ripreso a passare. Gli altri vecchi lo seguivano uno dietro l'altro sul bordo della strada.

Il «piano del sellaio» era uno spiazzo fra due case disposte ad angolo. Serviva da parcheggio per i carri. Ora lo occupavano quattro camion militari e una automobile piccola, tozza e senza tetto. I soldati erano discesi e si sgranchivano le gambe, però rimanevano presso i camion al centro dello spiazzo. Chiacchieravano fra loro, e molti si erano tolti gli elmi.

Parecchi civili guardavano raccolti vicino alle due case. Finalmente da un vicolo arrivò Francì sempre seguito dai vecchi. I due ragazzini di prima gli andarono incontro e gli dissero qualcosa piano. Francì si curvò per udirli. I ragazzini indicavano i soldati. I vecchi si misero fermi accanto agli altri civili.

Un soldato alto, dai capelli biondi e lisci, fu il primo cui Francì capitò vicino. Francì fissò il soldato, poi interrogò cogli occhi i nipotini. Questi fecero vivamente segno di no col capo. Il soldato sorrise: – Hallo – fece.

– Cu-bai – rispose Francì. E ai ragazzini: – Dove sta?

Questi parevano aver perduto la voce. Forse intimiditi dai soldati, stavano stretti alle gambe del nonno e si facevano capire scuotendo le teste scarruffate.

I soldati si facevano da parte divertiti. D'un tratto i ragazzini ridiventarono irrequieti, presero a tirare il vecchio per i calzoni.

Lo condussero vicino all'automobile.

Là c'era un gruppo di ufficiali e graduati. Fumavano composti, superiori. Uno di essi, che pareva il capo, e stava appoggiato su un gomito alla ruota di ricambio dell'auto, si fece incontro al vecchio. Sorrideva e veniva avanti incerto.

– Siete voi De Marinis Francesco? – domandò.

– Sono io – disse il vecchio.

– lo sono Ciccillo.

Il vecchio avanzò, e l'altro tese la mano. Francì la trovò per caso, la mano di Ciccillo, senza vederla perché s'era fatto troppo avanti, come per abbracciarlo. E così strinse la mano e si fece indietro, a una distanza giusta.

Ciccillo odorava di saponetta e di tabacco dolce, e la sua faccia era liscia e piena. Francì aveva invece un barbone ispido e grigio.

I soldati intorno sorridevano.

– Come state papà? – fece Ciccillo.

– Non c'è male.

E intanto Francì esaminava il figlio. L'aveva lasciato in America che aveva solo cinque anni. Lo rivedeva ora uomo sulla quarantina.

Ciccillo osservava il padre.

– Che combinazione, no?

– Davvero – disse Francì. E non sapeva cosa dire. Ma era proprio il figlio Ciccillo quello?

E questo vecchio era Francì, il padre?

Francì era molto più alto di Ciccillo, e magro, mentre Ciccillo era piuttosto tarchiato. Inoltre Ciccillo portava occhiali; fini occhiali con una leggera montatura d'oro. Ciccillo si guardò intorno imbarazzato, poi mormorò qualcosa in inglese ai soldati, non un comando, e questi rispettosamente si ritrassero un poco. Allora Ciccillo si volse al padre, fece l'atto di prenderlo per un braccio, ma senza toccarlo.

– Venite, sediamoci qui, sulla jeep.

Il vecchio lo seguì, e sedettero dentro l'automobile. Poi ripresero a guardarsi in faccia.

– Sei proprio Ciccillo? – domandò lentamente Francì. Non aveva saputo trattenersi.

– Sì, sono proprio io.

– Non ti avrei mai riconosciuto.

– E che volevate; riconoscere?

Francì scosse il capo.

– Hai ripreso da tua madre.

– Pare di sì – disse Ciccillo.

Francì sospirò. Poi chiese: – E che fa tua madre?

– Sta bene. Adesso sta a Filadelfia, da sua nipote Nunziatina. Vi ricordate Nunziatina?

– Sì.

– È rimasta vedova.

– Quando c'ero io era una giovinetta.

Tacquero un poco. Davanti al cofano dell'auto comparvero le due facce dei ragazzini che avevano accompagnato Francì.

– E quelli chi sono?

– Sono nipoti miei – rispose Francì.

– Avete avuto molti figli con lei, con quella vedova?

– Sette.

– E lei già ne aveva.

– Ne aveva quattro.

Questa volta fu Ciccillo a sospirare.

– Undici figli.

Francì non disse niente.

– In Italia usa, no? – fece Ciccillo.

– Come capita.

– Quando vi siete messo con lei?

– Due anni dopo che sono tornato dall'America. E tua madre s'è messa con qualcuno?

Ciccillo arrossì.

– Con nessuno. Ha solo lavorato per tirarmi su. Il viso di Francì non tradiva emozione alcuna.

– Ha fatto il suo dovere – disse. – È una brava donna.

Peccato che non potevamo andare d'accordo.

E Ciccillo capì che l'argomento era chiuso.

– lo ho studiato, – disse, – lavoro in una banca.

Francì annuì senza rispondere. Col gomito aveva toccato per caso il braccio di Ciccillo, ma come se ne accorse si scostò subito.

– Sono sposato e ho una bambina – proseguì Ciccillo.

E si frugò in una tasca, trasse un portafogli grosso, lo aprì, trovò una fotografia. – Guardate.

Francì esaminò la fotografia – una donna grassa con in braccio una grassa bambina – e la restituì al figlio.

– Vi piacciono? – domandò Ciccillo.

– Sì.

Tacquero un altro poco. Si sentiva il brusio che facevano i soldati intorno.

– Sicché tu sei Ciccillo – disse Francì.

Ciccillo sorrise.

– Comando questi soldati – fece, con un gesto. – Sono capitano.

Ogni volta che faceva una rivelazione, Ciccillo ne studiava l'effetto in faccia al padre. Francì rimaneva indifferente.

– Mi posso fermare solo un momento – disse Ciccillo.

– Dobbiamo continuare l'avanzata.

– Gliele date ai tedeschi?

– Oh, sì, non è difficile dargliele.

Francì parve riflettere, poi disse: – Ho due figli sotto le armi. – Guardò Ciccillo. – Erano tutt'e due in Albania.

– Non contro di noi, allora.

– No.

Dopo una pausa, Francì osservò: – Parli bene l'italiano.

– Lo parlo, in America. Ci troviamo spesso fra italiani.

– Anche quando c'ero io.

Il sole ora stava dietro una casa, ma c'era ancora buona luce nello spiazzo. Francì guardò un gruppo di soldati raccolti attorno a qualcosa, un recipiente cilindrico che mandava un ronzìo.

– Che fanno? – domandò.

– Preparano il tè. Non possono stare senza.

– Vi trattate bene. Siete bianchi e rossi come dei signori. Ciccillo sorrise alzando le spalle.

– Attorno ci guardano – disse Francì.

E Ciccillo osservò i civili attorno che stavano attenti ai soldati, al tè, al pane, e alle altre cose da mangiare che i soldati avevano tratto dai sacchi dentro i camion.

Francì interrogò cogli occhi il figlio, e questi, rosso, chiamò un ufficiale. L'ufficiale accorse, parlottò un poco con Ciccillo, indicò col pollice i civili.

– Give them some tea. Something – disse Ciccillo.

L'ufficiale tornò dai soldati, ordinò di distribuire un po' di tè, qualcosa, ai civili. Questi, come se fossero stati in attesa, subito vennero avanti.

– Viva l'America! – disse forte una voce d'uomo.

I soldati risero.

– Fame? – domandò un soldato a un ragazzo che beveva avidamente il tè.

– Sì.

Il soldato, chi sa perché, scoppiò a ridere. Andò ad un camion, tornò con del pane. Pane candido, leggero come una piuma.

E venne distribuito molto pane.

I civili ringraziavano, cercavano di farsi capire, e il nome di Ciccillo era spesso sulle loro labbra.

– Sei anche tu della nostra razza – disse Francì al figlio.

– Non sei Ciccillo tu?

Ciccillo si stringeva nelle spalle, confuso. Offrì un pacchetto di tabacco al padre. Questi ringraziò e se lo mise in tasca.

L'animazione cresceva sempre, i civili si riempivano la bocca e le mani.

– Povera gente – disse Ciccillo. E guardò i piedi nudi del padre: – Non hai scarpe?

– Non mi servono.

Ciccillo scosse il capo. Assisteva alla felicità dei civili ed era contento di essa. Era contento anche di non dover trovare qualcosa da dire al padre.

E padre e figlio rimasero per molto tempo a guardare in silenzio la confusione attorno ai camion. Fino a quando venne un ufficiale da Ciccillo. Disse qualcosa in inglese additandosi l'orologio al polso. Ciccillo fece segno di sì, che aveva capito. Diede un ordine. E al padre: – Mi dispiace, dobbiamo andare.

L'ufficiale si avvicinò ai civili. .

– Basta! Via! Finito.

Tutti si calmarono, tacquero. Ma nessuno si mosse. – Via! – intimò l'ufficiale.

– Papà! – gridò uno dei civili.

Francì si voltò.

– Eccomi, ora vengo – rispose. Poi, a Ciccillo: – Li vuoi salutare?

Il figlio si strinse nelle spalle. Annuì.

– Venite, Ciccillo vi vuoI salutare – chiamò forte Francì. E tutti i civili vennero attorno alla jeep. Erano una trentina

o più. Tutti quelli che avevano invaso lo spiazzo.

– Sono tutti parenti nostri – disse Francì.

Ciccillo diede un'occhiata circolare.

– Tutti?

I soldati avevano fatto come un altro cerchio, più distante.

Ridevano.

– Questo è Ciccillo – disse Francì ai parenti mentre si alzava. I parenti mormorarono qualcosa.

Ciccillo guardò tutti quei piedi scalzi, tutti gli stracci di vestiti che coprivano quella gente. Discese dalla jeep insieme a Francì.

E dovette fare il giro a stringere la mano a tutti. Chi aveva nell'altra mano una scatoletta di carne, chi una pagnotta, chi un pacchetto di sigarette. Ognuno, a turno, disse grazie.

Poi Ciccillo si ritrasse. Aveva un sorriso forzato. Francì stava invece eretto e fiero al suo fianco.

– Una bella famiglia, no? Quasi la metà del paese.

Ciccillo sorrise ancora, stupidamente, e rimontò sulla jeep. Intanto i soldati s'erano radunati vicino ai camion. E montarono anch'essi, disciplinati, ma ridendo ancora.

– Addio, papà – disse Ciccillo in fretta. – Spero di tornare, dopo la guerra. Con mia moglie e la bambina.

– Salutami tua madre – disse Francì.

Ciccillo annuì. I motori rombarono. I civili agitarono le braccia.

– Addio Ciccillo!

– Viva l'America!

La jeep si mosse, i camion si mossero. Girarono l'angolo di una casa, arrivarono sulla strada.

Francì e i parenti si avviarono. Ognuno mostrava all'altro quello che aveva avuto.

Cominciava a far fresco, e i vecchi, gli amici di Francì, decisero di rientrare nelle case. Ormai era tardi per tornare sul muretto.

– Ciccillo comanda. Che bravo figlio avete – dicevano i parenti a Francì seguendolo a casa.

– Che soldati ricchi.

– Ha detto che torna.

– Quello non tornerà mai – disse Francì. Era tranquillo, i suoi occhi erano asciutti.

– E perché non deve tornare?

– Qui non si può ritrovare. È americano, lui. In America nessuno va scalzo.

Poi nessuno più disse niente. Arrivarono a casa, un'unica grande casa che li ospitava tutti.

La vedova, la compagna di Francì, lo aspettava nella cucina. Come entrarono ognuno posò sulla tavola quello che aveva avuto dai soldati.

La vedova interrogò con lo sguardo. Era grossa e nera, una enorme chioccia.

– È venuto Ciccillo. Questa roba ce l'ha data lui.

– Perché ve l'ha data? – domandò lei, dura.

– È un parente nostro.

– Macché parente! – gridò lei alzandosi, dominando tutti, uomini, donne e bambini. Figli e nipoti e pronipoti. – Via questa roba! Non la voglio vedere!

Francì se ne tornò fuori, di lato alla porta. «Lo sapevo» disse fra sé, ed era contento.

Sentì ancora gridare lei. Aveva la voce rotta.

– È viva, sì? E io e Francì non ci possiamo sposare mai. «Ed è gelosa ancora», disse Francì con soddisfazione.

Si sedette su uno scalino. In casa gridavano forte. Le scatolette suonavano metalliche cadendo sul pavimento. «Tutt'e due brave donne», pensò Francì.

Sulla strada passavano i camion, i cannoni; erano sagome brune che procedevano adagio, senza luci.

E Francì ripensò al figlio, un momento, ancora per chiedersi se era proprio Ciccillo. Poi si tastò in tasca, ritrovò il pacchetto del tabacco, riempì la pipa e l'accese aspirando con piacere il fumo caldo.

Dategli un po’ di te. Qualcosa.

[Giuseppe D'Agata, I giorni della speranza, Cappelli, Bologna, 1978, (pp. 5-19)]





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